Dal 18 maggio al 26 novembre 2023 Sacred Landscapes, mostra curata da Marco Delogu, raccoglie 10 lavori di altrettanti grandi fotografi internazionali e le accosta a una delle Vatican Chapels ospitate nel bosco dell’Isola di San Giorgio, a Venezia, sede della Fondazione Cini.
Ciò che mischia mondi diversi ha solo due nature possibili: quella sacra, oppure quella demoniaca. Le pratiche di ibridazione, di contatto profondo, hanno assunto nei secoli definizioni differenti, ma quasi sempre polarizzanti. Cristo, per prendere un esempio noto, a cavallo tra identità umana e divina, è individuato come una figura estremamente positiva, per certi versi più complessa e affascinante di Dio stesso. Dal punto di vista narrativo, almeno, lo è senza dubbio. D’altra parte creature a metà tra il mondo umano e quello animale – come i vampiri, i lupi mannari, le chimere – sono tendenzialmente malvisti, rei di aver valicato confini d’esistenza pensati invalicabili. Di esempi ce ne sarebbero ancora molti altri, ma non sarebbero del tutto propedeutici al discorso. Discorso che ci porta, invece, a indagare in quale di queste due dimensioni, sacra o demoniaca, ricade Venezia.
Il dualismo di Venezia, d’altronde, è evidente: a quale mondo appartiene? Terra o mare? La sua esistenza liminare la rende sensibile alle ambiguità morali a cui si faceva riferimento. Per discernere la questione, nella città costruita sull’acqua, conviene forse prenderne alcuni frammenti, distinguerli, e cercare di indagarli. Guardando Venezia puntando l’Isola di San Giorgio, per esempio, non c’è dubbio che essa appartenga al reame del sacro.
Non solo perché vi sorge ormai da decenni la Fondazione Cini, istituto di ricerca culturale situato nei luoghi dell’abbazia che fu. E nemmeno perché, oltre all’abbazia, l’unico altro edificio dell’isola – accerchiata da barche dagli alti alberi che rende frammentaria e dondolante lo sguardo sul resto della città – è una chiesa. Il luogo è infatti diventato sacro, ancora più sacro, per via della presenza delle 10 Vatican Chapels. Installate nel 2018 per la prima partecipazione alla Biennale di Architettura del Vaticano, le costruzioni sono poi rimaste in linea definitiva sull’isola. Le si scorge nel bosco sul retro dell’abbazia, tra gli alberi e la nebbia che sale dalla laguna, come visioni mistiche e misteriose. E senza dubbio sacre.
Il silenzio, la natura, il mare che spunta tra le fronde fitte della vegetazione. Il luogo è Venezia ma non lo è, è terreno ma non solo. Ogni cappella, realizzata da un diverso architetto, è un luogo di riflessione e preghiera che interpreta in maniera differente il senso del religioso. Sono incredibili esempi di come l’architettura, e dunque l’uomo stesso, possa plasmare il pensiero e anche ciò che dal pensiero si stacca fino alla pura, e divina, astrazione. Dal 18 maggio al 26 novembre 2023 tale meccanismo si amplia grazie a Sacred Landscapes, mostra curata da Marco Delogu che raccoglie 10 lavori di altrettanti grandi fotografi internazionali. Ognuna delle opere è accostata a una cappella, ne occupa gli spazi come un’icona. Ma, al contrario di un’icona, il suo significato non è preciso, stabile, evidente, ma si allaccia alla cappella in maniera più laterale e suggestiva.
Ad esempio, il fotografo di guerra Don McCullin entra nella cappella progettata da Norman Foster con l’immagine Il bosco di Ravello (2005): una composizione solenne, intrisa di misticismo e di sacralità che interagisce con la fitta composizione e l’ambiente evocativo dell’architetto. Vanessa Winship, invece, porta She Dances on Jackson (2013) nella cappella del cileno Smiljan Radic. Una fotografia che è sintesi di un lungo viaggio compiuto negli Stati Uniti, esplorando la vastità di questo territorio e tentando di comprenderne e ritrarne i legami con i suoi abitanti.
Return to the woods è l’opera scelta di Francesca Woodman (1980), fotografa americana scomparsa prematuramente a soli 22 anni. Nell’estate del 1980, nel suo studio, l’artista immagina di restituire il tavolo in legno all’albero, al bosco, in una metamorfosi tra artificiale, umano e naturale. L’opera condivide con la Cappella del Mattino di Ricardo Flores ed Eva Prats la tonalità dell’intonaco di cocciopesto. La Desert house (2018) del fotografo Tim Davis si infuoca nei colori del cielo all’imbrunire, stagliandosi nel deserto su una collina rocciosa, come un miraggio che appare all’interno dell’architettura di Francesco Cellini.
Con la serie Second Nature – Tahiti (2010) il sudafricano Guy Tillim si allontana dalla fotografia documentaristica che ha caratterizzato il suo lavoro andando alla (ri)scoperta del paradiso in terra, interrogandosi sulla limitatezza del suo mezzo di fronte a tale splendore. Che da naturale pare diventare divino. Quantomeno nella cappella circolare, sospesa tra cielo e terra, di Javier Corvalán.
E ancora, il paesaggio etereo e astratto di Natura bianca #14 (2008) di Marco Delogu, creato dal movimento del vento e da un’atmosfera di cielo bianco e basso, dialoga con il piccolo edificio ecosostenibile di Teronobu Fujimori. L’immagine della Crimsworth Dean Methodist Chapel (1977) di Martin Parr racconta di un luogo fortemente simbolico e identitario di una comunità dello Yorkshire, entrando in una nuova narrazione in cui dialoga con il senso di ritrovo e condivisione della cappella di Andrew Berman.
I quattro scatti che compongono l’opera fotografica di Annie Ratti, artista poliedrica, Mushrooms (2014) adagiata sul terreno in prossimità della cappella di Carla Juaçaba, ritrae differenti fasi di crescita di un fungo dalle proprietà allucinogene. Le composizioni lineari e la compattezza cromatica della fotografia Milano (2023) di Paolo Ventura sono affiancate alla presenza discreta, come una pura linea tracciata nella natura, della cappella vaticana dell’architetto australiano Sean Godsell. Il percorso ideale si chiude tra i luoghi fisici e dell’anima, mitologie e culti arcaici trasportati nel contemporaneo che accomunano il lavoro di Graciela Iturbide nel ritratto della Mujer Angel (1979), una donna indigena del Messico del popolo Seri abitante del deserto di Sonora, inserita nell’architettura di Eduardo Souto de Moura: spessi blocchi di pietra di Vicenza, poggiati l’uno sull’altro, che si percepiscono come un antico monolite.
Interdette alla visite del pubblico se non tramite visita guidata alla Fondazione Cini, le Vatican Chapels paiono giovare anche di questo limite apparente. Nel sacro non ci si imbatte: lo si ricerca, lo si coltiva. Allo stesso modo le cappelle richiedono lo sforzo di essere desiderate, per certi versi anche meritate. La volontà di raggiungere Venezia, poi l’Isola di San Giorgio e infine immergersi nel suo bosco. Il luogo per eccellenza dove, sul punto di perdersi, si ritrova se stessi.