80 opere di cinque fotografi – Enzo Sellerio, Letizia Battaglia, Franco Zecchin, Fabio Sgroi e Lia Pasqualino – raccontano Palermo nell’arco temporale che va dagli anni ’50 al 1992. Un percorso tortuoso, inafferrabile come la città. Che pare trovare la sua perfetta dimensione estetica nel bianco e nero. Dal 17 aprile al 24 settembre 2023, alla Fondazione Merz di Torino.
Palermo la immagino in bianco e nero. L’ho sempre fatto, ma non l’ho mai saputo, almeno fino a che non ho varcato le soglie della Fondazione Merz di Torino. Qui, fino a settembre, è esposta una storia d’amore. Quella con Palermo, appunto, condensata in una mostra che come ogni storia d’amore si compone di gioia e sofferenza. Palermo mon amour è il titolo scelto per raggruppare gli scatti di 5 fotografi, che insieme – o alternativamente – hanno raccontato quarant’anni del capoluogo siciliano. Dagli anni ’50 al 1992. Data simbolica per la città e l’Italia intera, in cui persero la vita Falcone e Borsellino. Un momento spartiacque, che nel caso della mostra diviene invece un’interruzione. Da lì in poi qualcun altro si è fatto testimone delle storie della città. Noi, invece, abbiamo da godere di quelle raccontate da Enzo Sellerio, Letizia Battaglia, Franco Zecchin, Fabio Sgroi e Lia Pasqualino.
Cinque autori, diversi tra loro, accomunati da almeno un aspetto: il bianco e nero. Una coincidenza propedeutica all’organicità della mostra, d’accordo. Ma non certo necessaria o indispensabile alla sua coerenza estetica. Vi è dunque una ragione più profonda, forse inconscia, che trova radici nell’immaginario visivo che questi stessi fotografi hanno contribuito a formare. E che ora ritorna loro indietro sotto forma di classicità, li consacra a filtro di una città, di un microcosmo tanto contradditorio da essere indefinibile. Allora mi dico che forse è per questo che Palermo è rappresentata in bianco e nero: la sua anima non la si può afferrare. Dunque meglio riprenderla per ciò che è, eliminando distrazioni, lasciando solo la forma, nel tentativo di comprendere almeno quella.
Lo racconta anche Valentina Greco, curatrice della mostra: “Scattare una fotografia significa partecipare alla felicità, alla fragilità, alla quotidianità, alla eccezionalità, alla ferocia, all’ipocrisia, all’affabulazione, alla ricchezza, alla miseria, alla meraviglia delle situazioni collettive sia pubbliche che private“. Applicare quest’ottica a Palermo, forse, significa scegliere il bianco e nero, equivale a sospendere giudizi morali ed etici, accettare che gli elementi sopracitati non siano distinti, ma tutti miscelati insieme.
Ma già è un pensiero che implica dietrologie, sovrastrutture, analisi che superano l’immediatezza del sentimento. Al contrario Palermo, per me, è bianco e nera in modo immediato, viscerale. Lo è perché immagino che dalle sue strade si sollevino in continuazione soffi di terra e polvere, perché dal mare il vento porta continuamente piccoli granelli di sabbia. Perché è una città accecata dal sole, dalla luce che inonda tutto senza distinzioni. Oppure perché le foto che più si vedono, di Palermo, sono quelle di Letizia Battaglia. Quelle in cui i corpi, morti, sono distesi lungo le strade. Quelle in cui una detonazione ha fatto crollare un palazzo, ribaltato una via, squarciato la città. E tutto è velato di pulviscolo, i colori si fanno da parte.
Non a caso Palermo Mon Amour fa leva proprio sul concetto di deflagrazione. Lo fa restituendo uno scorcio della storia di Palermo dagli anni ’50 al 1992, esplorando l’immaginario poetico di una città in continua frammentazione e non sempre ricomposta nella sua complessità. Alla visione gentile, giocosa, colta e antiretorica che caratterizza gli anni ’50 e ’60, lacerata da scenari di miseria e degrado ma anche attraversata da una tensione alla rinascita civile ed economica, seguono gli assalti degli anni ’70 e i fatti di cronaca feroce che costellano la vita quotidiana di Palermo fino al 1992, l’anno in cui sembrava che tutto potesse cambiare. Alle rivoluzioni del movimento punk e alle manifestazioni studentesche si affiancano le produzioni teatrali, l’arte, la vita politica contraddittoria nella costruzione di uno stato d’eccezione costante, di cui la scrittura e la fotografia sono state attente osservatrici e protagoniste.
Palermo è in bianco e nero perché intimamente decadente, in senso romantico, sempre sul punto di crollare, di sbiadire, di implodere su se stessa. Vive di un equilibrio precario fatto di pulsioni e slanci emotivi, di contraddizioni e ribaltamenti. Oggi forse si è abituata a questa sua natura resiliente, si è convinta di poter vivere nella perenne instbailità, in bilico sul baratro o sul paradiso. Ma noi ancora ci stupiamo e non capiamo, siamo costretti ad avvalerci delle foto come strumento per fermare il tempo che scorre e individuare punti focali su cui poggiare. Un’interpretazione suggerita, del resto, dal titolo stesso dell’esposizione, tratto dall’omonimo romanzo di Marguerite Duras: Hiroshima Mon Amour. Qui, ad un certo punto, si legge: “Si crede che, quando una cosa finisce, un’altra ricomincia immediatamente. No. Tra le due cose, c’è lo scompiglio“. Chissà che a Palermo niente inizi o finisca mai: tutto è un eterno scompiglio. E in mostra ci sono 80 frammenti della sua continua deflagrazione.