Mezzo Perugino, mezzo Burri e un nero intero. Questo in estrema sintesi il racconto della mostra NERO Perugino Burri – che, a ben guardare, è una soluzione ancora più stringata ma comunque efficace – organizzata dalla Fondazione Perugia, ovviamente nel capoluogo umbro. Dal 22 giugno al 2 ottobre 2023 a Palazzo Baldeschi, Perugia.
L’esposizione si avvale di prestiti provenienti da alcuni fra i più prestigiosi musei del mondo, tra cui il Musée du Louvre di Parigi, la Galleria degli Uffizi di Firenze e la Galleria Nazionale dell’Umbria, oltre alla Collezione Burri.
Dieci opere di Perugino, dunque, dialogano con dieci opere di Alberto Burri in un allestimento frutto di un corposo restyling degli interni di Palazzo Baldeschi. Il tema della conversazione è il colore nero. Tenebroso e affascinante da osservare, ma anche difficile e pericoloso da usare, il nero è uno dei colori più iconici e inflazionati nell’immaginario umano. É la notte, la paura, l’azzeramento. Ma anche la profondità, l’eleganza, l’inafferrabile.
Spesso identificato all’idea del nulla, in realtà il nero è il primo colore, nella preistoria, a dare forma all’essenza pittorica. Nere sono le linee, neri sono i contorni, nere le figure animali impresse sulla roccia. Per gli egizi è il colore di Anubi, dio degli inferi; nel medioevo è visto come veicolo del male e dell’oscurità, ma anche della penitenza e dell’umiltà – non a caso è il colore utilizzato dai monaci benedettini per le loro vesti. Nei secoli diventa il colore dell’austerità, ma anche dell’autorità (pensiamo ai giudici). Senza dubbio è il tono che leghiamo alla stampa, alla parola scritta e alla trasmissione del pensiero. Però è innegabile una sua vicinanza al lutto e alla morte. É insomma un colore diffusissimo, forse proprio a causa della sua natura ambigua e controversa.
Di certo per secoli è stato poco utilizzato nella pittura occidentale, non era adatto ai paesaggi né tantomeno agli abiti o alle figure, o comunque raramente presentato nella sua purezza. Lo si riscopre più utile nelle sperimentazioni contemporanee. La mostra in questione evidenzia l’eccezione della prima affermazione, mentre conferma la seconda.
Il progetto – curato dalla storica dell’arte Vittoria Garibaldi e dal Presidente di Fondazione Burri Bruno Corà – prende infatti piede da un’opera particolare del rinascimento italiano: la Madonna con il Bambino e due cherubini del Perugino, una tavola dal sapore intimo e familiare conservata proprio nella collezione permanente di Fondazione Perugia. Il capolavoro ritrae la Vergine con il bambino che si stagliano su uno sfondo completamente nero. Non un paesaggio collinare (tipico dell’artista) e nemmeno un’architettura prospettica. Solo un profondo e infinito nero su cui i protagonisti si stagliano come mai visto prima.
L’espediente – probabilmente mutuato dalla pittura fiamminga e da quella veneziana – è utile per fare risaltare gli incarnati dei personaggi e la brillantezza delle vesti. Da qui la volontà, da parte dei curatori, di indagare l’uso dello sfondo nero in alcune opere del Perugino. E la richiesta in prestito di alcune di queste – come Ritratto di Francesco delle Opere e il Ritratto di giovinetto, provenienti dalla Galleria degli Uffizi, o la Madonna con Bambino tra San Giovanni e Santa Caterina del Museo del Louvre – per poterle esporre in mostra.
Per Bruno Corà “il nero è pieno di possibili valenze simboliche. È un colore azzerante e difficile da usare, capace di isolare qualsiasi forma o immagine che gli sia avvicinata, così come la può rendere emblematica. È un colore che suscita molte domande e tocca il sentimento in profondità”. Indubbio che il Perugino, dunque, l’abbia utilizzato nella seconda intenzione. Discorso diverso invece per Burri, per cui il nero è protagonista e diventa materia viva che si espande ed emerge.
Nella decina di opere di Burri in mostra (come pure in molte altre, essendo il nero uno dei colori prediletti dall’artista), il nero funziona da abito aderente. É uno strato di colore solo all’apparenza piatto, che invece riflette e gioca con la luce in maniera imprevedibile. I riflessi che attiva sono il sintomo del movimento della materia stessa che compone l’opera, e che dell’opera è l’essenza. In Catrame del 1949 e Nero Cellotex del 1968, per esempio, notiamo come i nero giochi con la forma: la nasconde solo per, un attimo dopo, lasciarla esplodere in maniera sorprendente.
A unire Perugino e Burri, inoltre, c’è anche l’Umbria. Terra natale di entrambi, che li ha accolti a secoli di distanza. La mostra è quindi anche l’occasione per assaporare il tempo che passa e insieme ad esso la storia di un territorio, la sua cultura, la sua arte. A distanza di quattrocento anni e più due artisti hanno raggiunto uguali vette di grandezza: con metodi e linguaggi diversi, con intenti e poetiche lontanissime. Eppure oggi si ritrovano a loro insaputa vicini, accomunati da quel nero che entrambi hanno amato.