Print Friendly and PDF

Il Sole allo Zenit #8: Vermeer comunque, con Jan e gli altri

Rembrandt, I sindaci dei drappieri, 1662, olio su tela, 191,5 x 279 cm
In compagnia di un artista, Jan Dibbets, per un’occasione speciale: una visita inaspettata alla mostra di Veermer al Rijksmuseum di Amsterdam. Ricordando da Bas Jan Ader a Malević fino a Cesare Pavese

Mi incontro con Jan (Dibbets) fuori dall’ingresso alla mostra di Vermeer (Johannes). Nonostante i miei biglietti ordinari prevedano una lunga coda, agevolmente riusciamo a saltarla perché lui è “amico del museo” e io ne ero sicuro. Jan ha degli occhiali tondi con le lenti divise in diagonale, e veste sempre di nero, muovendosi agile con un elegante bastone. Ci perdiamo tra i dipinti, di Vermeer e gli altri. Il suo lavoro di Rembrandt preferito è i “Sindaci dei drappieri” e lì ci fermiamo a lungo, perché è anche uno dei miei capolavori favoriti in assoluto. Ci camminiamo davanti per farci seguire dallo sguardo dei “presenti”, che è incredibile che ti guardino sempre, e proviamo entrambi un certo imbarazzo per quel Volckert Jansz che si sta per alzare vedendoci avvicinare o, forse, per rispondere a una nostra fatidica domanda: “ma come ha potuto, Rembrandt, dipingere questa meraviglia?”. In attesa della sua risposta continuiamo il nostro scostarci per notare la curva del drappo sul tavolo resa anche in materico: incredibile, davvero. Ma torniamo a Vermeer. Jan ammira più di tutto la sua luce e quei punti luminosi indicati qua e là, visibili soltanto da qualcuno che ha utilizzato la camera oscura, della quale le didascalie non fanno molta menzione. Constatiamo la finestra sempre dipinta, la calma delle composizioni, il senso di silenzio che avrà sicuramente ricercato anche per evadere dai pianti dei quattordici figli avuti. Anche la musica è spesso presente, come i gialli, i blu e le figure femminili. Iniziamo il percorso dalla fine, che i capolavori sono lì, mi dice. Due in particolare: il penultimo e il terzultimo della sua produzione, posti uno di fronte all’altro in correlazione, con la donna alla finestra, lo stesso tavolo, la stessa parete, ma dai vetri della prima rappresentazione entra il sole, nell’altra la tenda tirata impedisce l’illuminazione. Continuiamo con molta calma, che il Maestro la richiede. Notiamo i velluti blu resi poeticamente nella sedia, Jan mi indica la trasparenza del latte versato dalla famosa Lattaia, mi sottolinea una recente attribuzione per la Dama che suona il Virginale, mi fa largo tra la folla spingendomi avanti per scrutare da vicino quello che forse è il miglior lavoro: la Merlettaia del Louvre Museum. Man mano risaliamo le radici di Vermeer fino ad arrivare ai dipinti quasi caravaggeschi, che non hanno nulla di magico e che non l’avrebbero di certo reso l’autore che oggi conosciamo. Mostrano il “what” anziché mostrare l’”how”, mi ribadisce, costringendomi a riflettere. Mi ridesto perché siamo difronte a una delle vedute più belle che la storia dell’arte ci ha tramandato: quella di Delft, in prospettiva, vista da sud, che anche Proust definì “le plus beau tableau du monde”.

Richard Long, Maas Riverstones Circle, 2023, pietre disposte a cerchio

E da qui inizia un altro capitolo che coinvolge tutti i quadri che vediamo, tra il Rijskmuseum e lo Stedelijk lì vicino, e l’installazione del suo caro amico Richard in giardino. Long, dopo qualche secondo, aggiunge guardandomi, come se non ci fosse bisogno. Jan conosce tutto e tutti, e non mi perdo una frase dei suoi racconti. Barnett Newman, basso ed elegante, lo chiamava il suo Dutch friend e avrebbero dovuto rivedersi nell’estate del 70, ma se ne andò prima e l’incontro non avvenne. Alla mostra “Earth” del ‘69, il cui catalogo io mi vanto di conoscere, mi dice che il suo assistente era Gordon Matta-Clark, figlio di pittore, mentre Ger Van Elk copiava tanto, mi confida, anche se era un bravo artista, alla fine della fiera. Ad Reinhardt era il preferito di Bob Ryman ma lui, purtroppo, non ha fatto in tempo ad incontrarlo. Ryman era con Jan quando vide i dipinti bianchi suprematisti di Malevič per la prima volta dal vivo, e non smise mai di parlarne, tanto lo impressionarono.

Kazimir Malevič, Quadrato bianco su fondo bianco, 1918, olio su tela, 79,5 x 79,5 cm

Amico di Jan era anche Bas Jan Ader, che era completamente pazzo. Una volta andarono a camminare insieme, e li accompagnò anche la signora Ader. Giunti a una biforcazione del sentiero Bas chiese a Jan di prendere la via ripida con lui e Jan dapprima accettò, ma poi la moglie lo convinse a non andarci, dicendogli che quei passaggi a strapiombo non erano per chiunque e che solo un imprudente avrebbe scelto quella via da percorrere. E Bas ritornò più di due ore e mezza dopo, tutto sanguinante, in viso, su mani e gambe. Non aveva il senso del pericolo, precisa, e si sapeva che prima o poi, e comunque presto, in malo modo sarebbe finito. Quando con una mini barca volle tentare la traversata dell’Oceano Atlantico, tutti pensarono al suicidio. La banda che suonò a Los Angeles, alla sua partenza, avrebbe dovuto presenziare anche al suo arrivo in Olanda, ma nessuna musica fu più necessaria.
“Un artista è colui che per andare da a a b non fa la linea dritta”, Jan mi dice. E poi silenzio.

Tomba di Cesare Pavese, cimitero di Santo Stefano Belbo

Parliamo un po’ di film, ancora. Il suo preferito è l’Andrei Rublëv, di Tarkovskij, regista adorato, che tanto aveva cara la Toscana, che anche per lui è una seconda patria. Jan ha infatti una casa dalle parti di San Casciano, dagli anni 70, che ogni anno riesce a visitare anche più d’una volta. Alle pareti del soggiorno ha appeso un omaggio a Mondrian, che sta di fronte a un dipinto antico. In mezzo c’è un moderno divano rosso e due finestre che guardano la collina e il borgo vecchio. Lì recentemente e per la terza volta, in questo maggio piovoso, ha letto “Paesi Tuoi”, di Cesare Pavese. “It’s so simple”, dice, e questo lo rende memorabile. Io gli racconto proprio della mia recente visita al paese natale di Pavese, Santo Stefano Belbo, che anche lui conosce, mostrandogli immagini della sua vecchia casa e la tomba su cui compare la famosa frase: “ho dato poesia agli uomini”.
E mentre cerca gli scatti della sua stanza, scorrendoli lentamente sul cellulare, scorgo le fotografie che ha realizzato dal finestrino nel suo volo di ritorno: l’orizzonte è per tutte obliquo.

PS: Questo racconto è stato possibile grazie alla cortesia di Marina Benzi che, senza nemmeno conoscermi, dopo aver letto il “Il caso Vermeer “, mi ha regalato due biglietti. Grazie infinite.

Nicola Mafessoni è gallerista (Loom Gallery, Milano) e amante di libri (ben scritti). Convinto che l’arte sia sempre concettuale, tira le fila del suo studiare. E scrive per ricordarle. IG: nicolamafessoni

Commenta con Facebook