In un mondo saturo di immagini diffuse in rete qualsiasi contenuto si banalizza, anche l’atrocità scontata e il contenuto significativo si atrofizza. Sul rischio dell’assuefazione alla “banalità del male” già scriveva Susan Sontag nel saggio Sulla fotografia (1977) e da allora molte cose sono cambiate (anche in peggio) e in seguito a Instagram, il fenomeno degli youtuber, Tik Tok altri social media, la potenza delle immagini sembra aver perduto l’originario potere e dimenticato la sua dimensione di ricerca spirituale.
Una riflessione sul valore delle icone in rapporto al presente, in relazione a Venezia connessa con con Bisanzio prima di internet, oggi che ha abbiamo perduto la dimensione del sacro, del bello e del giusto, è il tema non banale della mostra collettiva intitolata “Icônes” a cura di Emma Lavigne, direttrice della Pinault Collection, e Bruno Racine, direttore e amministratore delegato di Palazzo Grassi, magistralmente allestita a Punta della Dogana, sembra quasi paradossalmente iconoclasta (fino al 26/11/2023).
La mostra collettiva presenta alcune opere provenienti della collezione Pinault, rappresentata di David Hammons, Agnes Martin, Kimsooja, Chen Zen, Danh Vo, Rudolf Stingel, Sherrie Levine, On Kawara, Maurizio Cattelan, tra gli altri scopriamo opere mai esposte prima a Punta della Dogana, a Venezia, dove dalla prima all’ultima sala si chiede al fruitore una partecipazione empatica e la volontà di addentrarsi in un percorso di meditazione e raccoglimento. Sala dopo sala si passa dall’icona all’assenza tout court delle immagini, in cui anche suoni e profumi, luci e ombre, installazioni ambientali ci invitano a riflettere sul significato delle icone in rapporto al contesto veneziano. Icona è termine banalizzato dai media che come già sappiamo significa “immagine” e “somiglianza”. Dalla mostra impariamo che cambiare le regole sul cosa s’intende per icona non significa affatto escludere l’aniconismo, un mito della modernità.
Attraverso 80 opere, tra capolavori e inediti, installazioni site-specific di 30 artisti di diverse generazioni, nati tra il 1888 e il 1981, e molti di loro hanno partecipato alla Biennale di Venezia, nell’era della sovraesposizione, saturazione, post-produzione delle immagini e della loro indebita attribuzione, questa mostra “ ripulisce” il nostro sguardo dalle ovvietà dell’arte contemporanea, riconducendoci al valore delle emozioni e alle reazioni che le immagini e le opere suscitano nel pubblico.
Attraverso pitture, video, installazioni ambientali, suoni e profumi a Venezia, caratterizzata da un dialogo costante con l’Oriente, comprendiamo quando e come una icona può rappresentare, o meglio rispecchiare una presenza di aurea sacrale tra apparizione e sparizione, dimensione divina e quotidianità, e quali reazioni suscitano certi simboli consumati dai media. La mostra richiede tempo, è legata alla tradizione culturale di Venezia, partendo dal fil rouge con l’Oriente, dall’icona bizantina che ha suggestionato l’occidente di ieri e di oggi, a partire dai fondi oro del Medioevo, passando dal Gotico, Kandinskij, Malević fino a Rothko indaga il rapporto tra le immagini, le persone e smuove il desiderio di elevazione spirituale.
Ci vuole cuore, cervello e coraggio a parlare di icone, di relazioni tra cultura visuale occidentale e l’arte della Russia ortodossa, attraverso la poetica del film Andreij Rublev (1966) dedicato al pittore di icone del XV secolo, di Andrei Tarkovskij (1932-1986), regista russo convinto che l’immagine possa incarnare al di là dei secoli e delle vicissitudini storiche, l’idea di libertà assoluta del potenziale spirituale umano, nell’attuale sconcertante scenario di conflitto russo-ucraino sul fronte dell’Europa orientale. Nell’ambito di una guerra tra imperialismo e colonialismo, in cui è necessario schierarsi pro o contro qualcuno e qualcosa, la mostra apre un dialogo sulle differenze culturali, formali e poetiche e assume significati universali profondi e aiuta a meditare sulla dimensione contemplativa e non consumistica dell’arte.
L’icona che include convergenza tra uomo e divinità, è strumento cognitivo, di coscienza e trascendenza; nella contemporaneità è vessillo di scambio culturale transnazionale. L’arte dovrebbe superare i conflitti, attuare connessioni tra genti e culture, e lo capiamo attraversando le sale di Punta della Dogana, ammantate dal silenzio, in cui si snodano opere simili a ex voto in dialogo con l’architettura che sarebbe piaciuta a Carlo Scarpa, concepita intorno al vuoto, come spazio di meditazione e raccoglimento e con pareti a calcestruzzo a vista in rapporto alla luce da Tadao Ando (2009).
Sappiamo che l’icona nella pittura religiosa caratterizza prima Bisanzio, nell’ambito del cristianesimo orientale, poi dagli anni ’60 diventa ‘laica’ nel Villaggio Globale dei Mass Media, con la Pop Art si iconizza il quotidiano e si mistifica la società dei consumi, nel web tutto è immagine e post linguaggio della comunicazione dell’arte.
Tornando alla mostra , il viatico di elevazione spirituale incomincia nella prima sala con opere ‘soglia’ in bilico tra visibilità e invisibilità, allestite intorno a uno spazio–cappella dove Concetto spaziale (1958) di Lucio Fontana (1899-1968) e l’installazione Ttéia (2003-2017) di Lygia Pape (1927-2004) composta di fili d’oro tesi nello spazio sembra aprire un varco verso l’infinito, e irradia il buio della sala con raggi di luce. Nella stessa sala, il minimalista Donald Judd (1928-1994) riduce il simbolismo della croce e dell’oro per conservare solo la struttura e il colore giallo che splende in Untitled (1991), quattro cubi di acciaio corten. E qui vibrazioni di oro, spazialismi luminosi e la materializzazione di gialli, ammantati dall’oscurità evocano dimensioni altre dove tutto e calma, bellezza e spiritualità. Si passa all’inferno straniante nella seconda sala, dove c ’è l’opera video La Quinta del Sordo ( 2021), ispirata alle quattordici pitture nere dipinte da Francisco Goya nella sua casa a Madrid tra il 1819 e il 1923, di Philippe Parreno (1964). Si tratta di una ricostruzione digitale in 3D della casa di Goya, dove le pitture sono collocate in dialogo finestre e porte, e le uno con le altre, in cui la luce dello schermo e il suono squarcia il nero davanti alla potenza delle immagini dall’impatto visivo perturbante. Sensorialmente aniconica è l’installazione sonora Untitled graphs (2022-2023) di Camille Norment (1970), nella sala 4, dove panche di legno emettono vocalizzi a contatto e attraverso le persone che sostano a contemplare la laguna del Bacino di San Marco visibile da una finestra, in cui convergono le vibrazioni sonore con il riverbero dei riflessi dell’acqua. Sappiamo che l’aniconismo finisce con l’essere inteso come indice di spiritualità di una cultura dall’Astrattismo (1910) a oggi, e la mostra lo conferma. Nella sala 6, le opere di Agnes Matin (1912-2004), in particolare Blue – Grey Composition (1962), dopo i monocromi recupera la forma e il colore e più tardi introduce il motivo della griglia, evocando aperture anche dietro forme apparentemente chiuse. E in questo clima di riflessione sulla percezione, tra gli altri si distingue Francesco Lo Savio (1935-1963), in mostra con Spazio Luce (1960) nella sala 8, un cerchio al centro della tela rettangolare le cui variazioni cromatiche creano l’effetto di una superfice vibrante, proprio come i mosaici dorati di Bisanzio.
Condividono una riflessione sull’alterità, nomadismo e l’incontro con l’altro nella sala 10 Chen Zhen (1955-2000), noto per le sue ricerche interculturali e un video di Kimsooja (1957), artista che tramite le performance di A Needle Woman (1999-2000), inscrive il proprio corpo nella verticalità dell’immobilità, in mezzo al tumulto dei flussi delle megalopoli e zone sconvolte da conflitti politici. Sospesi nel cuore della sala 11, oscillano nello spazio centrale di Punta della Dogana, pezze di velluto decolorate dalla luce e dal tempo, provenienti dai musei del Vaticano di Danh Vo (1975), artista vietnamita in dialogo con Rudolf Stingel (1956) presente con Untitled (2010); entrambi seppure in maniera differente indagano i misteri della creazione e dell’apparizione di una immagine. E dopo aver attraversato Mothabeng (2022) una imponente cupola–capanna di Dineo Seshee Bopape (1981), fatta di argilla, terra e polvere di marmo, dove all’interno la luce filtra dalle fessure dei materiali essiccati, mentre suoni e profumi invado lo spazio ritualità e arte si inscrivono in nel tempo presente. Inevitabilmente, in questa mostra nella sala 14, non poteva mancare l’opera più iconica di Maurizio Cattelan (1960), La Nona Ora (1999), la statua di cera incredibilmente realistica di Papa Giovanni Paolo II, colpito da un meteorite, rappresentato nell’intensità di una silenziosa sofferenza, a occhi chiusi.
Un simbolo della fragilità umana del Pontefice, della religione Cristiana e della Chiesa in Occidente. Tra le altre intense opere tutte da meditare, l’ascesi, sviluppata all’inizio del XX secolo da Vasilij Kandiskij e Kazimir Malević, entrambi segnati dalla cultura ortodossa dell’icona, culmina nelle opere metafisiche e contemplative ispirate alle icone russe di Josef Albers (1888-1976), e in uno spazio architettonico di forma ortogonale che accoglie sette opere della serie OPLALKA 1965/1, in cui si sente l’artista Roman Opalka scandire una serie di numeri, proprio mentre li dipinge, rappresentazione dello spazio-tempo dell’esistenza. Il viaggio trascendentale si chiude al primo piano del Torrino, sala 15, rivestito di specchi sul pavimento e di pellicole trasparenti sulle finestre che rifrangono la luce all’infinito: è l’installazione To Breathe – Venice (2023) di Kimsooja, che inscena l’illusione di camminare sull’acqua della laguna all’interno dell’architettura. Qui i visitatori cullati dalla mistica polifonia di Mandala: Zone of Zero (2004-2010) composta da canti tibetani, islamici e gregoriani, perdono il senso di gravità e vivono una esperienza vertiginosa che eleva corpo e spirito verso l’infinito.