Questo tour delle mostre di arte contemporanea nella capitale è dedicato ai solo shows, che vedono protagonisti artisti di diverse nazionalità e generazioni con proposte di qualità, rivolte a pubblici di sensibilità differente, prima della chiusura estiva.
Tutta incentrata sul mondo queer è la proposta della Fondazione Memmo, che punta sulla giovane artista canadese Sin Wai Kin, alla sua prima personale italiana-affidata al curatore Alessio Antoniolli – autrice del video Dreaming the end, interamente girato a Roma, che da il titolo all’esposizione. Un suggestivo viaggio in alcuni luoghi iconici della città, dai saloni di Palazzo Ruspoli ai giardini di Villa Medici fino alle arcate del palazzo della Civiltà del Lavoro all’Eur, in compagnia dell’artista che si traveste secondo logiche non binarie e codificate, lungo un itinerario surreale e onirico che attraversa narrazioni e generi cinematografici combinati tra loro in maniera originale anche se non sempre comprensibile, tra fiction e realtà, horror e folk. La mostra prosegue tra busti, parrucche e salviette da make-up, che l’artista considera alla stregua di sindoni di un’identità che muta costantemente.
Dopo il poliedrico storytelling di Sin Wai Kin ci spostiamo nello spazio di Gagosian, sapientemente interpretato dall’artista americano Alex Israel con la mostra Fins, dedicata alle pinne delle tavole da surf, protagoniste dell’immaginario balneare dell’artista losangelino. Con un’estetica marcatamente pop di forte impatto, Israel gioca sull’ambiguità di questi oggetti in plastica acrilica colorata, riprodotti in dimensioni giganti, che vivono sull’ambiguità tra la dimensione sportiva e giocosa della cultura del surf, evocando allo stesso tempo l’avvistamento degli squali sulle spiagge popolate dai bagnanti. Un’installazione divertente e al tempo stesso inquietante, sospesa tra Jaws e Baywatch, interpretata da Israel in maniera sottile e ironica anche con 4 autoritratti recenti, ognuno dedicato ad una pinna di colore diverso.
La ripetizione di un’immagine iconica in chiave pop ritorna nella mostra dell’artista britannico Julian Opie alla galleria Valentina Bonomo, dove alle pareti dello spazio al Ghetto sfilano tredici “walking figures”, persone in movimento colte per strada. Sagome colorate colte da Opie in atteggiamenti, pose e abiti quotidiani, immerse nella lettura dei cellulari, impegnate a correre verso il posto di lavoro o preoccupate di arrivare tardi ad un appuntamento galante. Ridotte ad un’essenzialità che le apparenta ad insegne stradali o vetrine di negozi, le opere di Opie sono segni di una tensione urbana tipica del nostro tempo, icone moderne di una way of life minimale e asettica, che si appropriano dello spazio ed entrano in una relazione sia visiva che concettuale con il visitatore, per diventare, come suggerisce Valentino Catricalà, “totem del Ventunesimo Secolo” sospesi tra reale e virtuale. Ad un altro aspetto dell’attualità guarda invece Julie Polidoro con la mostra Social Distance, allestita nella sala Fontana del Palazzo delle Esposizioni e curata da Giuseppe Armogida.
Attraverso il linguaggio della pittura l’artista indaga due questioni drammatiche: la vita dei migranti nei loro centri di detenzione e i paesaggi trasformati dalle conseguenze del riscaldamento climatico. Quattordici opere di dimensioni diverse rappresentano altrettante immagini, viste però attraverso lo schermo di un computer: Polidoro le coglie prima che un click possa cancellarle o farle ritornare in rete. “Lo schermo trasmette informazioni in modo omogeneo. Nella mia pittura, invece, ci sono interruzioni, vuoti di pigmento, spazi lasciati al non visibile” dichiara l’artista, che combatte la dimensione asettica e impersonale del web con una pittura incompleta , che vive in un ritmo irregolare tra pieni e vuoti, segni e colori, sfondi e dettagli, in uno spazio bidimensionale percepito come un’immagine piatta e priva di connotati sensibili, che l’artista riporta sottolineandone la natura reale e bruciante. Come il vento che entra nelle case è il poetico titolo scelto dal giovane artista Guglielmo Maggini per la sua personale presso z2o project, dove ha riunito una serie di sculture realizzate con materiali diversi, dalla ceramica alla resina fino alle schiume sintetiche dette memory foam. Nella costruzione di un ambiente dove le opere dialogano tra loro in maniera armoniosa, attraverso sofisticate combinazioni tra materiali, cromie e dimensioni diverse, Maggini da prova di una consapevolezza che trascende la fascinazione per la materia verso un orizzonte simbolico e concettuale denso di aperture e possibilità semantiche, come nell’opera in ceramica Rogo di ricordi arancioni, tra le più interessanti esposte in mostra, senza mai rinunciare alla componente inquietante che caratterizza la ricerca dell’artista. Il tour si conclude nel cuore del rione Testaccio, presso la Fondazione Giuliani, dove la mostra Blue Nacht riunisce i grandi dipinti della giovane tedesca Raphaela Simon, che interpretano in chiave onirica alcune figure umane dall’apparenza misteriosa e perturbante, in dialogo con alcune sculture antropomorfe poggiate a terra, quasi a comporre un paesaggio postumano, oscuro e alienato, che sembra provenire da un futuro post-apocalittico.