ArtNoble raccoglie i lavori di cinque artisti afro discendenti nella sua galleria di Milano, dove gli autori ripercorrono le loro vicende personali, intrecciate con la storia coloniale dei rispettivi Paesi. Dal 15 giugno al 26 luglio 2023.
Parola chiave: Stratificazioni. Non solo perché da il titolo all’esposizione (e non è poco), ma soprattutto per l’eterogeneità di interpretazioni che il termine raccoglie. E non potrebbe essere altrimenti per un parola che di per sé indica per l’appunto l’accavallarsi di elementi, siano essi concreti o ideali. A guardare le opere di Jermany Michel Gabriel, Délio Jasse, Muna Mussie, Jim C. Nedd e Georges Senga, sono infatti almeno due i modi di intendere il concetto.
Di certo di stratificazioni si compone la storia, quella del singolo e quella collettiva. Si succedono fatti, si sommano interpretazioni e punti di vista. Li si prova a riassumere in narrazioni che restituiscano una verità, o quantomeno un’aderenza alla realtà e all’accaduto. Ma spesso l’unico racconto a sopravvivere, ad essere tramandato, è quello dei vincitori. E gli altri finiscono schiacciati dalla voce più forte.
Ma per stratificazione si attua anche il lavoro degli artisti in mostra, che provano a recuperare proprio quegli eventi, quelle persone, quelle singolarità dimenticate nel sovrapporsi del tempo. Il lavoro di ricerca, di studio delle tradizioni, di archivio, di raccolta di testimonianze, di denuncia, costituisce infatti la base per la realizzazione dei lavori esposti. Per leggerli, dunque, l’osservatore è chiamato a superare l’impatto estetico e penetrare al loro interno. Per comprenderle è necessario scoprire il mondo retrostante che le compone, quel che solo in apparenza pareva irrimediabilmente perduto.
Molte delle vicende raccontate, impresse nelle opere dai medium eterogenei, sono legate al trauma coloniale. Come quelle di Jermany Michael Gabriel, che attraverso suono, installazioni e performance prova ad esorcizzare il ricordo e trasmettere la sua esperienza sotto forma artistica. Al centro il suo vissuto, ma soprattutto quello delle persone che conosce, con cui parla, con cui collabora per dare vita a un processo collettivo di ricostruzione. Nella speranza di evadere dal linearismo storico e intercettare una pluralità di interpretazioni finalmente in grado di ricostruire un mosaico affidabile di ciò che è stato.
Di indizi di vite passate si occupa anche Délio Jasse. Attraverso la fotografia, come pure foto di passaporti ritrovati, album di famiglia e materiali vari, l’artista prova a tracciare collegamenti inediti al fine di evocare le “immagini latenti” della memoria. Un modo per ricordare di più, per ricordare meglio, per reinterpretare in maniera più lucida il passato.
Si proietta al presente, ma un presente che ancora risente del passato, Muna Mussie. Le sue foto dell’Eritrea contemporanea colpiscono per la miscela di identità, e dunque di storia e prospettive, con cui il paese africano si trova a convivere. L’impronta coloniale è stata talmente presente che ancora oggi se ne rintraccia l’orma. Ma si tratta appunto di un segno manchevole del soggetto che l’ha impresso. Un despota arrivato per sfruttare e che niente ha restituito. Ha lasciato solo un senso di desiderio inappagabile e la frustrazione di chi vede la propria identità vacillare. E dunque si stringe a sé nel tentativo di conservarla.
Con la fotografia opera anche Georges Senga. Un archeologo della fotografia che va alla ricerca delle risonanze che gli uomini, i loro fatti e i loro oggetti lasciano dietro di sé. Soprattutto nella Repubblica Democratica del Congo, suo paese natale e custode della sua memoria più intima. Una ricerca simile a quella di Jim C. Nedd, che però sceglie di concentrarsi maggiormente sull’elemento geografico. Il quale, in definitiva, non è che un varco d’accesso per conoscere cultura e tradizione di un Paese. Qualsiasi esso sia, nell’ottica di un mondo senza confini e costruito su principi e memorie condivise.