La mostra appena aperta al MAMbo, intitolata “Yvonne Rainer: Words, Dances, Films” e curata da Caterina Molteni, ci presenta in modo completo Yvonne Rainer (1934), generalmente più nota come coreografa e danzatrice, che come film-maker e poetessa.
Il MAMBO le dedica la prima retrospettiva in Italia, con testimonianze video delle sue coreografie, dei suoi film che si snodano lungo il percorso fino ad arrivare all’ultima sala costruita come un archivio con un insieme di materiali forniti dal Getty Research Institute di Los Angeles.
Importanti per la formazione dell’artista sono stati i seminari frequentati nel 1960 della coreografa Anna Halprin in California e quello del musicista e coreografo Robert Dunn. Figure rivoluzionarie che erano maturate con gli esempi di Merce Cunningham, il fondatore della postmodern dance e del musicista e compositore John Cage, che apriva la musica all’interdisciplinarità e al pensiero orientale. Il clima che si venne a creare a New York era effervescente e ricco di incontri e confronti che si coagularono nella formazione del Judson Dance Theater, in cui si raccolsero, tra il 1962 e il 1964 alla Judson Memorial Church nel mitico Greenwich Village, danzatori e coreografi aperti all’incontro con “pratiche eterogenee e liminali”. Vennero prodotti centinaia di seminari e spettacoli dove si praticavano la “commistione dei generi e l’accavallamento di diverse discipline artistiche” che si saldavano ad una “matrice culturale e sociale di rivolta” estesa “alla vita e alla proiezione identitaria dei protagonisti” (il virgolettato è tratto da Rossella Mazzaglia, Judson Dance Theater, 2010, Ephemeria Editrice, Macerata).
Le coreografie degli anni Sessanta di Yvonne Rainer sono chiaramente leggibili alla luce di queste sperimentazioni: durata indefinita, che poteva comprendere anche diverse ore, e commistione di generi: performativo, videografico, recitato, registrato in un numero anche cospicuo di danzatori con oggetti incongrui per la tradizione della danza – come dei materassi -, ma derivanti (come per tutti quelli della Judson) da un confronto con la tradizione performativa e sperimentale delle avanguardie come “costruttivismo, dada e surrealismo”. Programmatico e riportato in mostra è il “NO MANIFESTO” della metà degli anni Sessanta, in cui si rifiutano i canoni tradizionali del teatro come la spettacolarità, il coinvolgimento emotivo del pubblico, lo stile, l’eroismo e il suo contrario ecc. ecc. a favore quindi, e viene sottolineato nel manifesto di fronte, di una serie di proposte che traducono nella danza postmoderna (così venne definita allora) i canoni dell’arte minimalista.
Ad esempio il prodotto dalla macchina si traduce in un’uguaglianza energetica e in movimenti “trovati” (readymade); le forme unitarie e i moduli hanno un corrispettivo nell’uguaglianza delle parti; alla superficie ininterrotta corrisponde la ripetizione dei movimenti o eventi discreti; le forme non referenziali si relazionano con una performance neutrale e, ancora, il letterale diventa “task performance” (eseguire un compito in modo reiterato). Alla luce di queste premesse si comprende il lavoro coreografico più famoso dell’artista del 1966, ripresentato nel 1968: The mind is a muscle, che durò una serata intera all’Andersen Theater di New York con la partecipazione di numerosi performer, diverse installazioni, videoproiezioni, elementi scenografici mobili, registrazioni audio.
Il tema è il corpo con “il suo peso reale, la sua massa, la sua fisicità potenziata” (dalla scheda in mostra) e alla fine finisce con la proiezione di Trio A, la cui registrazione degli anni Settanta da il benvenuto allo spettatore nella prima sala del MAMBO. Altri video degli anni Sessanta arricchiscono la documentazione delle coreografie dell’artista con lavori come Hand movie del 1966 una coreografia per una mano, Volleyball (Foot film) del 1967 una coreografia solo della parte inferiore delle gambe, che mi ricorda una sperimentazione cinematografica futurista, fino allo “scandaloso” Trio Film del 1968 che rappresenta un dialogo tra due persone nude: i danzatori Steve Paxton e Becky Arnold. Si passa poi al capitolo cinematografico dell’artista che recupera una narrazione orientata alla critica impegnata su temi di genere da una prospettiva femminista. Infatti Rainer esordisce con Lives of performers del 1972 in cui, ancora con l’uso di corpi di danzatori, costruisce una specie di “melodramma” di un triangolo amoroso, criticando diversi cliché rappresentativi della donna secondo le convenzioni del tempo. Altri film sempre connotati da una narrazione dimostrativa ed impegnata vengono proiettati seguendo un calendario preciso in modo da dare al visitatore una visione completa della produzione anche tarda di Yvonne Rainer.