Alla Pelanda – Mattatoio di Roma una mostra che ripensa il concetto di cura e identità, la prima personale di Liryc Dela Cruz
Rifrazioni è la programmazione artistica pensata da SPAZIO GRIOT (Johanne Affricot, Celine Angbeletchy, Eric Otieno Sumba), dal 20 giugno al 30 luglio tra la Pelanda del Mattatoio e EXP – Caffè delle Esposizioni al Palazzo delle Esposizioni. Una serie di appuntamenti multidisciplinari per indagare e confrontarsi sull’autopercezione e le percezioni stereotipate, prendendo spunto dal concetto di rifrazione. Alla Pelanda del Mattatoio, l’artista e regista Liryc Dela Cruz dà il suo contributo debuttando con la prima personale Il mio filippino: For Those Who Care To See. A cura di Johanne Affricot ed Eric Otieno Sumba, la mostra rievoca il concetto di cura, allargandosi ai temi del colonialismo/decolonialismo e dell’identità.
Liryc Dela Cruz e la storia di una comunità
Regista e artista, Liryc Dela Cruz lavora da anni sulla diaspora della comunità filippina in Italia, concentrando la sua ricerca sulle dinamiche sociali ormai secolari, innescate nelle Filippine da una successione di domini. Prima il colonialismo spagnolo, poi l’imperialismo americano, l’occupazione giapponese e la dittatura di Ferdinand Marcos Sr. A cominciare dal XVI secolo, questa serie di processi storici ha innescato dei condizionamenti sociali che influenzano il vivere comune così come l’essere individuale. «Negli anni Settanta uno dei modi più facili per viaggiare fuori dalle Filippine era uscirne per fare il lavoro di “donna delle pulizie”», racconta l’artista, «una delle prime agenzia che ha portato i Filippini in Italia è stata la Chiesa».
Nelle Filippine esistono delle vere e proprie scuole che addestrano i giovani al lavoro di pulizia, ricordano lontanamente le accademie militari, con tanto di divise, comandi, gerarchie e ritmi che diventano ripetizioni meccaniche. Alla Pelanda del Mattatoio di Roma, nell’esposizione Il mio filippino: For Those Who Care To See sono i suoni e le voci di queste scuole che si ascoltano nel buio della sala dedicata. Liryc Dela Cruz ha pensato a un’installazione immersiva fatta di 3 video mostrati su schermi da 42 pollici, più uno. La configurazione dei video nei piccoli monitor è identica a quella dei sistemi di sorveglianza: inquadrature rettangolari in bianco e nero. Vediamo le collaboratrici domestiche svolgere il loro ordinario lavoro: passare l’aspirapolvere, rifare il letto, prendersi cura della casa. Staccandosi da un intento puramente documentario, l’artista ci porta a una lettura precisa di queste immagini per cui la chiave è la parola “controllo”.
Disciplina, formazione, formalità e pulizia: è il lavoro a farla da padrone sulle persone che dedicano la loro vita alla cura di una casa e delle persone che la abitano. È un controllo implicito, silente e pervasivo, quello di un lavoro che può anche essere 24/7, durante le festività, senza riposo. A perderne è l’identità personale, dell’individuo, di qualcuno che, sin da bambino, pensa di avere un solo destino; l’identità di persone che, dopo anni a contatto con gli agenti chimici dei prodotti per la pulizia, perdono le loro impronte. Attraverso eventi performativi e momenti di dialogo, a queste persone Liryc Dela Cruz fa scoprire un’altra vita in cui il sé riconquista il suo valore unico, mediante un lavoro artistico comunitario.
Il mio filippino: smontare lo stereotipo colonialista
Nel loro paese d’origine lavoratori e lavoratrici sono esaltati come bagong bayani, “eroi moderni”, per via del loro contributo economico alle Filippine, sono dei “migranti modello”, quelli che lavorano senza fatica. Allo stesso modo i filippini e le filippine sono considerati dall’altra parte. All’ingresso della mostra Il mio filippino: For Those Who Care To See, Liryc Dela Cruz timbra la mano di chi entra, la stampa dice “IL MIO FILIPPINO”. E con un gesto semplicissimo si ribalta quella gerarchia che si nutre in primis delle nostre parole. Durante le frivole conversazioni da salotto – e non di rado anche nei salotti dell’arte – mai sentiamo parlare di “il mio francese”, “il mio tedesco”, “il mio italiano”, riferito alla persona che si prende cura di una casa. Invece, “il mio filippino” è una cosa che si dice con grande naturalezza: è il frutto di secoli in cui siamo stati abituati a pensare che un’etnia possa essere associata prima di tutto a un lavoro.
Una persona non è il lavoro che fa, un filippino non è automaticamente un collaboratore domestico e soprattutto non è in possesso di qualcun altro. Potrà sembrare scontato dirlo ma sono proprio le parole a dare forza a quei meccanismi sociali viziati che esistono e di cui però preferiamo non parlare. Così, Liryc Dela Cruz smonta uno stereotipo colonialista trasformando i gesti di pulizia di una casa in una danza. Nella mostra alla Pelanda, è il video di una donna che dorme, all’apparenza serena, che ci fa scoprire un’altra dimensione. Circondato dal tessuto del kulambo, con cui l’artista vuole creare un effetto di “voyeurismo involontario”, questo grande schermo spoglia la lavoratrice da ogni cliché. Nel sonno siamo tutti uguali, allo stesso tempo nel sogno siamo tutti unici e diversi, anche la lentezza e il riposo sono necessari. Viviamo in un periodo in cui si parla tanto di decolonialismo nell’arte ma è meno facile che lo si metta in pratica davvero. Con Il mio filippino: For Those Who Care To See, partendo dalla comunità filippina Liryc Dela Cruz, artista e attivista, ci fa riflettere sui modi di intendere le relazioni come rapporti di potere, sulla cura, sull’identità, su nuove soluzioni del vivere nello spazio con l’altro.