Come menzionava argutamente il Gaston Bachelard di La poetica dello spazio, erratica riflessione sul rapporto tra l’uomo e la casa, e in particolare sul potenziale dello spazio domestico in termini di rêverie, Victor Hugo aveva avuto l’intuizione di definire la funzione dell’abitare nel descrivere la relazione tra Quasimodo e la cattedrale di Notre Dame, che «era la sua dimora, il suo buco, il suo involucro… Egli vi aderiva in qualche modo come la tartaruga alle sue scaglie. La rugosa cattedrale era il suo carapace».
La mostra di Anzhelika Lebedeva “Abitare”, curata da Simone Marsibilio e visitabile sino al 3 settembre 2023 negli spazi di /f urbä/, a Guardiagrele, sembra inscriversi perfettamente entro quelle coordinate poetiche, pur non essendovisi ispirata direttamente. I nove pastelli e la scultura esposti, infatti, sono il frutto di una lunga meditazione sull’abitare, o meglio su come, quando e perché l’uomo decide di chiamare un luogo casa. Da Empty bed (2021) ai Light Studies (2021), Lebedeva ha restituito alcuni brani di spazio e di tempo domestici, filtrati attraverso la propria percezione, e in particolare presi dalla casa abitata attualmente dall’artista, una antica dimora assopita tra le montagne abruzzesi, e in un certo senso (ri)trovata. Del resto, il sentire un luogo come casa è intimamente connesso con l’idea del ritorno, anzi di quel ritorno doloroso celato nelle radici del termine nostalgia, νόστος e άλγος, nostos e algos, ritorno a casa e dolore, che non a caso diedero il titolo a una precedente mostra di Lebedeva. Ci sono anche due esperimenti site specific, Abitare I e II che danno il titolo alla mostra, in cui l’approccio dell’artista è applicato, e con pari perizia, agli spazi della Galleria.
La tecnica prediletta di Lebedeva è il pastello. Innanzitutto l’uso del pastello diventa qui per l’artista un medium privilegiato per parlare del tempo, da un lato, e per ritrovare l’esatta luce di uno stato d’animo, dall’altro. Il pastello non ha dell’olio né la lucentezza, né la natura liquida e vischiosa, è una materia più aerea, permette ripensamenti, e in un certo senso consente per questo più libertà di inseguire la resa atmosferica desiderata, anche nelle sue più minime variazioni tonali e luminose, senza la farraginosità del processo pittorico a olio. L’artista, tuttavia, tende a mantenere un ferreo controllo sul processo di preparazione dei materiali – i pigmenti del pastello, la colorazione delle tele e delle carte – onde nulla sia lasciato alle bizze del caso.
La lentezza del processo creativo, lo spandersi paziente della polvere, granello dopo granello, ombra dopo ombra, aiuta a ritrovare quello spessore polveroso con cui il tempo ricopre a volte gli interni. E d’altro canto il pastello definisce la profondità di un buio avvolgente e silenzioso, com’è quello di certe case antiche. Si tratta di uno sguardo volto verso un interno domestico che è anche interno di sé, in cui il silenzio e la sospensione possono essere, o non essere, l’attimo prima dell’azione, o congelare un’ombra, un fantasma di figura. In questo, la poetica di Lebedeva condivide molto con la ricerca di artisti nordici fine ottocenteschi quali Vilhelm Hammershøi, grande cantore degli spazi interni, Georges Le Brun o, in misura minore, Xavier Mellery.
Tale diafana visionarietà addensata per via di pastello, viene bilanciata in mostra dalla concreta fisicità della misteriosa scultura Hyle, dal greco ὕλη, materia, costituita di segmenti di travi di legno appartenenti alla casa, che chiude la mostra quasi a voler confermare con la materia stessa della casa un punto fermo, un’ancora. Sono strategie di conquista di uno spazio dell’abitare, perché, come scriveva Georges Perec in Especies d’Espaces, «lo spazio è un dubbio: devo continuamente individuarlo, designarlo. Non è mai mio, mai mi viene dato, devo conquistarlo».