Se davvero siamo fatti a sua immagine e somiglianza è comprensibile che qualche artista voglia imitare il creatore e rifare, oltre alle forme umane, anche quelle animali che Dio tempo fa si è impegnato a far vivere. Sarà che il settore artistico dipende molto dalle fiere e che il termine deriva da “fera”, che in latino significa bestia e sta ad indicare l’esposizione di animali a fini di vendita che, ultimamente, sembra esserci una vera e propria invasione e la quantità di sculture con soggetto animale è quantomeno bestiale.
Passiamo la lista in rassegna e iniziamo con Davide Rivalta che crea leoni, leonesse, lupi e gorilla, riproducendo in bronzo, alluminio, acciaio e resina, veri e propri giardini zoologici che prendono forma e che ci danno il benvenuto nella giungla.
Stefano Bombardieri propone rinoceronti appesi che sembrano moltiplicarsi più veloci della gramigna e recentemente anche qui vicino a me è apparsa, poco lontano da una rotatoria, una balena trascinata da una bimba. Liliana Moro nel 2005 aveva creato gli Underdog in bronzo: cani che si azzannano, lottano e soccombono, come prevedono le dure leggi del branco. Berlinde De Bruyckere ha riportato in scena parti equine provenienti da scarti di macello che secondo il volere dell’artista ricordano la violenza e l’orrore che accomuna sia l’essere umano che l’animale, mentre altri cavalli interi e nella loro completa forma escono dalle pareti secondo Maurizio Cattelan. Del resto proprio lui non poteva mancare, come i piccioni a Venezia che giustamente aveva deciso di esporre alla Biennale e in altre sedi note.
Arcinoto è anche il grande squalo tigre che Damien Hirst aveva presentato in formaldeide, esposto in una grande teca alla Tate Modern londinese. Il titolo era “L’impossibilità fisica della morte nella mente di un essere vivente” e fu un grande successo, nonostante un altro squalo fosse stato scelto ed esposto da Eddie Saunders giusto l’anno precedente. Alberto Garutti aveva messo dei cani alla Fondazione Zegna in una delle sue forme di dialogo con gli abitanti di quella terra. Ugo Rondinone, fedele al cognome, ha presentato uno stuolo di uccelli, modellati a mano nell’argilla e fusi poi in bronzo, in stile giacomettiano, intenti a razzolare nell’installazione Primitive al Carré d’art di Nimes.
Nel 1997 Wim Delvoye iniziò a tatuare i maiali vivi, scatenando le proteste di tutti gli animalisti e non solo, mentre Pierre Huyghe ha mostrato un cane bianco con la zampa rosa e quel pinguino da Louis Vitton che scende dal soffitto in a “Journey that wasn’t” spiegando che gli animali posseggono una loro scrittura ingiustamente considerata casuale, che aveva sempre più voglia di esplorare.
Mark Manders ha fuso in bronzo e ha poi dipinto con il solito grigio un cane stilizzato sdraiato a terra il cui muso è appoggiato a un plico di fogli stampati che giustifica il titolo “Dog with all Existing Words”, mentre Louise Bourgeois, per rievocare vecchie storie, ha creato ragni giganti che le soprintendenze di tutto il mondo amano mettere in grandi parchi. Il coccodrillo di Mario Merz si porta dietro una serie di numeri che genialmente Fibonacci inventò più di sette secoli prima per capire la riproduzione di conigli e la loro crescita. Paola Pivi espose invece orsi colorati realizzati in poliuretano e ricoperti da coloratissime e fluorescenti piume di tacchino per costruirsi un universo personale governato dalle leggi dell’assurdo e diventare ovviamente l’artista preferita delle mie bimbe.
E pensare che un tempo gli animali venivano esposti vivi così com’erano, muovendo decisamente altri pensieri: Jannis Kounellis presentò un pappagallo vivo e vegeto all’Attico di Roma nel novembre del 1967 e da Iolas a Milano nel febbraio successivo, e l’anno dopo ancora, sempre a Roma, trasformò la galleria in una stalla con dodici cavalli legati alla sbarra.
Il 4 aprile del 1970 da Sergentini arrivò anche l’oroscopo di Gino De Dominicis e per cinque giorni restarono in galleria i dodici segni zodiacali, rappresentati da manufatti, esseri umani o animali reali, gran parte dei quali vivi, disposti a semicerchio e presentati a un incredulo pubblico. L’arte è vita, si deve proprio aver pensato in quella galleria, e ci vuole forse un fisico bestiale per resistere agli urti della creazione attuale. Ma non saremo un po’ noiosi ormai? Dev’essere tutta colpa di quella sorta di piacere che offre la visione di qualcosa di familiare. E pensare che nella prefazione de I Pittori Italiani del Rinascimento Bernard Berenson andava scrivendo: “un prodotto dell’ingegno non è un’opera d’arte se non aiuta ad umanizzarci. E senza arte, visiva, verbale o musicale, il nostro mondo sarebbe rimasto una… giungla”.
Nicola Mafessoni è gallerista (Loom Gallery, Milano) e amante di libri (ben scritti). Convinto che l’arte sia sempre concettuale, tira le fila del suo studiare. E scrive per ricordarle. IG: nicolamafessoni