Massimo Prelz Oltramonti è un pregiato collezionista di fotografia. Molte delle fotografie della sua collezione sono state esposte alla Tate Modern di Londra, dove Prelz vive e lavora, e sempre dalla sua collezione provengono le mostre di Giacomelli e di Mulas che abbiamo potuto gustare in occasione delle ultime due edizioni di The Phair, la fiera fotografica torinese. Ma questi sono soltanto due tra i molti eventi in cui le opere da lui collezionate sono state esposte per la gioia degli appassionati di tutto il mondo.
Quella che segue è l’intervista che Prelz ha voluto concedermi, in cui racconta ai lettori di Artslife molte cose sulla sua passione per la fotografia e il collezionismo.
Come nasce la sua passione per la fotografia?
La passione per la fotografia in me nasce da due cose. La prima è l’interesse per la fotografia che c’è sempre stata in famiglia, non le solite istantanee ma anche d’autore – Invernizzi quando ero bambino, poi Moncalvo – tutto un po’ torinese!; l’altro è che quando mi sono avvicinato all’arte l’ho fatto partendo dal disegno. Amavo i lavori su carta, che per molti versi sono molto simili alla fotografia, perché sono fatti di linee, non c’è colore… Poi per caso ho avuto l’occasione di avere accesso ad archivi di fotografi importanti, soprattutto italiani, opere dal 1930 al 1990. Ho capito che si poteva mettere insieme una bella collezione. Mi dava più soddisfazione ed era più facile che con i disegni degli anni ’20!
Come nasce la sua collezione?
La mia collezione è nata un po’ per caso. Una persona che conoscevo mi ha suggerito di mettere insieme del materiale importante e così ho fatto, comprando direttamente dai figli di Cavalli, da Branzi, da Giacomelli stesso, subito prima che morisse. E da Mimmo Jodice, di cui poi sono diventato amico.
Si ricorda qual è stata la prima opera che ha acquistato di fotografia?
Non saprei…Io quando faccio le cose cerco di farle in maniera “solida”; perciò, soprattutto per quanto riguarda la mia collezione di fotografia italiana, ho comprato direttamente dagli archivi diverse foto allo stesso tempo, per avere una visione completa dell’artista. Ma prima di quello avevo già comprato qualche Giacomelli, che amo molto, un po’ “a caso”.
C’è un’opera a cui è legato in modo particolare? Non dev’essere per forza la più preziosa dal punto di vista storico ed economico, mi riferisco a un valore personale, magari anche affettivo…
Non direi una sola, ce ne sono tante. Quella di cui sono più fiero, forse, è una foto di Tina Modotti. Lei è stata una grandissima artista e un personaggio unico, con una storia molto particolare. È la più grande fotografa italiana, secondo me, eppure non ha mai fatto fotografie in Italia. Questo è abbastanza divertente a pensarci…
Le capita di investire su fotografi emergenti?
Emergenti forse non molto. Dietro di me in questo momento vede un lavoro di Alfredo Jaar (stiamo parlando via zoom da Londra ndr), che fa parte di una generazione matura, davanti ho Michael Schmidt – non più fra noi… Oggi ci sono tanti giovani bravi con capacità tecniche molto alte, ma sono pochi che posseggano sia la tecnica, sia i contenuti allo stesso tempo. Molti davvero bravi oggi fanno forse più video. L’altro giorno era alla Tate Britain e ho visto un lavoro bellissimo, video di Paul Maheke, un artista classe 1985. Alla Tate Modern invece ha inaugurato da poco una mostra bellissima sulla fotografia in Africa…
Se le capitasse di trovare un’opera che la colpisce, opera di uno sconosciuto la comprerebbe? E, d’altra parte, c’è qualche giovane o emergente su cui scommettere oggi?
Io compro le cose che mi piacciono, non le cose che vanno o avranno successo. E poi non compro per mettere in magazzino, mi piace fruire delle opere… e oggi di solito i fotografi hanno formati molto importanti, che spesso non compro per una ragione pratica… Però, per esempio, ho diverse cose di Burtynsky.
Non ha mai pensato di avere una sua sede privata dove esporre?
No, lo trovo un vezzo del tutto inutile. Qualche tempo fa ho fatto una donazione di una trentina di foto della mia collezione alla Tate e loro le hanno esposte per tre o quattro mesi. In quel periodo mi hanno detto che da lì sono passati tre milioni di visitatori, di cui almeno due milioni hanno visto i lavori che ho donato io… questo per me è moltissimo… Quelli che si fanno il loro museino non comunicano veramente con il pubblico della fotografia, a me sembra essere puro narcisismo. Anche perché alla Tate c’è sempre la coda per entrare, ma nel piccolo museo personale non ci va nessuno, tranne chi lo monta per il proprio ego e qualche amico o amatore…
Tra i fotografi storici chi sono i suoi preferiti?
Trovo che ci siano tanti fotografi italiani del XX secolo che sono sottovalutati rispetto ai loro omologhi tedeschi, ungheresi, e anche francesi. Partirei da Cavalli, e Veronesi… gente davvero eccezionale e veri e propri artisti. Ma anche i russi come El Lissitzky o Rodčenko. C’è stato un periodo davvero creativo, di rottura, nel Novecento. Un inizio della fotografia che diventa arte, esce dalla documentazione pura e fa cose eccezionali…
Nelle ultime due edizioni di The Phair a Torino abbiamo visto le mostre di Mulas e Giacomelli tratte dalla sua collezione… Che cosa vedremo nel 2024?
In passato avevo più tempo da dedicare alla collezione, è stata mostrata due volte a Londra; poi a Parigi in occasione di un Paris Photo 2007 o 2008; poi a Mosca; in Italia, a Torino allo spazio Ersel. Ho esposto anche a Bratislava, per il mese della fotografia. Là c’è un mercato emergente, con un’ottima risonanza. Qualche tentativo di mostrare la collezione quindi c’è stato. Però credo che le mostre di Mulas e Giacomelli siano state un’esperienza utile per The Phair. Avere a fianco al commerciale qualcosa di museale e culturale secondo me è importante. Per l’anno prossimo non ho ancora un progetto, ma ci penseremo
C’è un aneddoto che riguarda il suo incontro con un’opera che vuole raccontare ai lettori di Artslife?
Sì. Una volta stavo comprando a un’asta di NY una bellissima foto della Modotti. Mi sembrava che le condizioni fossero ottime, anche visto il periodo in cui la foto era stata stampata, ed ero pronto all’acquisto. Ma un gallerista che conoscevo mi fermò. Mi disse di aver avuto per le mani la stessa foto quindici anni prima, e di averla trovata in condizioni molto diverse. “Quella foto tra trent’anni non c’è più”, mi disse. Questo fa capire come sia difficile collezionare un certo tipo di fotografia. Ed è un buon messaggio per chi si avvicina a questo mercato.