Luglio 1973. Mi drogavo, non da molto. Ma cosa importa adesso che la pelle sembra pietra di mare scaldata al sole. Per me fu la soluzione all’abbandono. Passeggiavo in centro, mi dirigevo verso una delle tante porte ancora incustodite di Sasso Caveoso, a Matera. Quella mattina lungo il tragitto mi accorsi, al civico accanto, di un nuovo ingresso, leggermente forzato che sembrava portare dapprima in un piano leggermente rialzato e poi scendere, come solo una grotta sa fare, verso l’ignoto e la sorpresa.
Davanti alla porta, un bidone di latta oramai maceria di ricordo, quelle tante cose che la mancata rinuncia accumula: lattine, plastica, escrementi di animali e vari pezzi di giornale. L’ultimo, a cronaca temporale, già sudicio dalle intemperie, asseriva “Paul Getty (17 anni) scomparso da Roma: rapina o scherzo?”. Un sottile fascio di luce mi colpì appena entrato. Proveniva dall’ingresso. Appena forzata leggermente la porta d’entrata, una piccola cucina e una finestrella. In fondo, delle scale sotto un arco di tufo. Avevo una piccola dose con me ed era per me divertente. Mamma era stata invitata a lasciare Matera anni prima. Nonna era cenere sotto una roccia. Come si può conficcare una croce dentro una roccia? Non date mai in pasto leggende ai tossicodipendenti. Recuperai qualche libro, quei pochi rimasti sotto un tavolino di legno. Niente luce. Con l’accendino presi la via delle scale. Girai a destra e mi trovai in una vecchia ed antica neviera. Alcune fessure dal soffitto. Qui la neve veniva raccolta e si conservava. Frigoriferi naturali.
Mi misi a sedere a terra. Un poco di luce filtrava dall’alto. Presi uno dei libri e iniziai la mia preparazione. Quel posto così isolato e freddo mi rincuorava. Il cuore si scalda quando si smette di contare i respiri e si inizia a godere i silenzi. La copertina del libro era fortemente ingiallita: un piccolo quaderno.
Nella prima pagina intitolava: “Io Cristiane, 1963, aprile, arte”. C’erano tantissime pagine, in tedesco, con disegni artistici e note e dalla velocità dello scritto sembravano dei dettati scolastici. Spesso si ripeteva il nome del Professor Rudolf Kubesh. Continuai a sfogliare tenendolo a terra accanto a me. Si stava facendo buio e la luce stava mancando. Con un accendino bruciai un poco qualche fogliame accanto a me in dei solchi tracciati dall’acqua pluviale. Con una mano tenevo la mia dose e cercavo un piano dove lavorarla. Con gli occhi leggevo ora distrattamente le pagine aperte. Una piccola volata di vento dall’alto fece sobbalzare un poco la piccola fiamma ora tenuta viva da alcuni pezzi di carta rigidi. Alcune pagine del libro scorsero e mi trovai davanti a me, una piccola mappa di Matera, e accanto gli schizzi degli affreschi scomparsi dalle chiese rupestri! “Mia madre me ne parlò. Sobbalzai!” Il movimento brusco mosse la fiamma e fece cadere dalla mia mano la mia dose che cadde miserabilmente dentro. Cercai di spengerla, cercai di recuperarla, fuori di me presi il libro per spostarla dalla fiamma che sembrava crescere. Una overdose persa, un attacco di panico di fronte all’abbandono. Il piccolo libro di Cristiane prese fuoco lentamente e disperatamente compresi quanto sia lento accettare l’abbandono delle cose care, quanto possibilmente veloce sia dimenticare. Quel libro forse era una prova, forse Matera avrebbe rivisto la luce da una cupa neviera.
Rudolf Kubesh, oggi, può essere considerato come colui che, con inganno e vergogna, rese noto come Matera sia la Pietra Vivente.