Carmelo Strano è filosofo, estetologo, teorico e critico delle arti visive e letterarie, distinguished professor di Estetica. Fondatore e direttore di fyinpaper.com – Daily Geocultural Journal, premiato da istituzioni di eccellenza (Cairo, San Diego, Parigi, Mosca, Amman, Bruxelles), è il nostro terzo intervistato nell’indagine dell’eredità letteraria e poetica di Italo Calvino, nell’anno del centenario di nascita.
Lei si considera un erede di Italo Calvino? Sì o no, e perché?
Non sono e non mi sento affatto un erede di Italo Calvino. Non è un problema di stima. Come scrittore, me ne strappa molta, ma il suo pensiero è novecentesco. Anche la sua fase sperimentale discende dal modernismo avanguardistico. Vi si dedica specialmente all’insegna dell’OuLiPo (Ouvrier de Littérature Potentielle), gruppo francese (Queneau e molti altri) che dal 1960 si diede delle regole restrittive nella scrittura, quasi di tipo meccanico, a mio avviso di lontana ispirazione dodecafonica. Basicamente e costantemente, Calvino è un classico forbito che trae alimento da alcuni classici, da Ariosto a Borges. E in questo terreno costruisce la sua poetica più vera e più interessante, quella di piglio fiabesco affidata a una scrittura trasparente e nitida che, per fortuna, trascura i cerebralismi di tendenza, e resta in bilico tra razionalità e fantasia. Quando si dedica alle Lezioni americane (1985, poco prima della sua scomparsa) domina il clima postmoderno, partito già da qualche decennio soprattutto in Usa, nel campo della scrittura e dell’architettura. Si è fatto qualche volta cenno a un collegamento di Calvino con questa ondata ideologica. Una bestemmia. Calvino si muove agilmente da intellettuale legato alla modernità, anche se serenamente inquieto. Questo, a dispetto del fatto che la stanchezza verso la modernità sia già espressa nel 1971 da Ihab Assan nel suo saggio POSTmodernISM. Sei anni dopo il teorico e architetto Charles Jencks pubblicherà The Language of Postmodern Architecture, seguito (1980) dal titolo assai significativo, Postmodern Classicism. Lyotard allarga gli orizzonti con La condition postmoderne, 1979. Non ho amato il Postmoderno e su questo ho scritto in varie sedi, nel tempo. Anche se mi ha fatto “divertire”, l’ho considerato subito una “condizione” transitoria, anarchica, priva di regole, che non aveva i titoli e le qualità e il respiro per succedere alla modernità. Proporrò, per quel ruolo, il concetto di Uniplosiveness, né implosione né esplosione tout court, assieme all’avvento di una razionalità docile (DoRa) e a una condizione caotica e frattalica caratterizzata da equilibri instabili. (Trasferirò sul piano estetico il concetto di Self-similarity di Benoit Mandelbrot, a seguito di dialoghi, e lo inviterò -anche in quanto artista “frattalico” – alla rassegna Unimplosiveness che curavo a Venezia nell’ambito della Biennale del 1997).
Ma questa mia visione delle cose, la nuova epoca, anche se Calvino fosse stato ancora vivo, lo avrebbe al più incuriosito. Nulla a che vedere con Calvino il postmoderno e il connesso eclettismo e citazionismo. Lo stesso Jurgen Habermas parla, sì, della modernità come un “uncompleted project”, ma profondamente mutato da considerarlo anche “frantumato”. (Thomás Maldonado sarà più spinto col suo titolo “Il futuro della modernità, 1988 che contrappone a “La fine della modernità”, 1985, di Gianni Vattimo, un’idea pertinente e forte anche se di un autore che si rivelerà debole di pensiero, curando, assieme a P.A. Rovatti, “Il pensiero debole”, 1982). In conclusione, come modernista Calvino nelle sue Lezioni ammannisce principi che non appartengono al futuro. Basterà considerare la felicissima riflessione di Lyotard a proposito della “Réponse à la question quest-ce que le postmoderne?). Il filosofo francese osserva (1982, Calvino ancora in vita): “L’artiste et l’écrivain travaillent donc sans règles, et pour établir les règles de ce qui aura été fait”. Quanto lontano da Calvino, che si voglia considerare questa sorta di aforisma legato al postmoderno o, per assurdo, a un’idea di semplice cambiamento della modernità.
Secondo lei leggerezza, rapidità, esattezza, visibilità, molteplicità, le 5 categorie della modernità raccolte nel libro “Lezioni americane” (1988), nella nostra epoca connessa sono ancora attuali, come, dove e perché?
Come è noto, le topiche calviniane hanno una gerarchia, dalla più importante alla meno importante.
Queste topiche mi hanno fatto venire alla mente gli enunciati di Woelfflin in ambito purovisibilista (altra conferma del terreno moderno o modernista in cui si muove lo scrittore): dalla molteplicità all’unità, dalla forma chiusa alla forma aperta, ecc. La differenza è, certo, sostanziale. Lo studioso svizzero muove da presupposti evoluzionistici, sicché i due corni dialettici di ogni sua proposizione denunciano un cammino migliorativo verso lo stato più alto o più evoluto (dalla forma chiusa alla forma aperta, ad esempio, che per lui è altamente esplicitata nel barocco).
In Calvino la processualità è interna, intrinseca alla sua idea di letteratura (in questo si era già impegnato, nel 1955, col saggio “Il midollo del leone”). Quindi sono sinergiche, queste topiche, in vista dell’ottimizzazione del lavoro letterario, indipendentemente dal fatto che siano governate da una gerarchia.
Anche qui piena conferma della “modernità” di Calvino e della sua distanza dal postmoderno e dal futuro a cui pensava con le sue “Sei proposte per il prossimo millennio” (questo il sottotitolo delle Lezioni americane, la sesta non fa in tempo a metterla a fuoco).
La leggerezza. Il riferimento è non solo al linguaggio ma anche alla struttura. Lo scrittore parla di “sottrazione di peso”. Gli è propria, la leggerezza. Inoltre, nel suo caso, essa è ben compatibile con la profondità del pensiero o del messaggio. Quanto al futuro, il web è leggero in sé in quanto etereo, ma i suoi contenuti e la loro veste estetica non lo sono necessariamente, semmai al contrario. Il NLP (Natural Language Processing che farebbe da mediatore) nel guazzabuglio diventa un indicatore di chiarezza. Per il resto il chatbot è uno strumento di velocità (formazione di idee, traduzioni, apprendimento automatico, ecc.). Ma, dal punto di vista creativo o semplicemente qualitativo o del principio di eccellenza, rimane sostanzialmente un ausilio (specie quando la mente si fosse già intorpidita). Per ricordare la sempre efficace distinzione di De Saussure, non vi trovi la “parole” (la combinazione creativa delle parole, il linguaggio), vi trovi la “langue”, una sorta di dizionario a estensione enciclopedica capace di risposte pertinenti e coerenti. Ma non sarà mai la “consistency” (la tenuta coerente) che peraltro era prevista al sesto posto nella scala gerarchica delle proposte di Calvino.
La rapidità. Non è sbrigatività, ma a mio avviso attiene principalmente al momento fruitivo. Calvino insisteva sulla brevità degli scritti (autore, anche, di racconti efficaci in questo senso). La rapidità Implica il rapporto col tempo anche in ordine al modo in cui gli eventi si sviluppano o evolvono o si abbarbicano.
L’esattezza. Va a braccetto con la rapidità che a sua volta è agevolata dalla semplicità, dal nitore, dall’essenzialità. In questo senso i racconti sono una bella testimonianza (Le Cosmicomiche oppure Ti con Zero degli anni ’60). Qui il chatbot può essere di aiuto se il suo fruitore lo sa dominare o sfruttrare bene. Comunque l’opera deve basarsi su un disegno o progetto chiaro, col contributo del mondo delle immagini. Questo, in vista di un “linguaggio icastico” e di una simbiosi tra il “fuoco” (emozioni e inquietudini) e il “cristallo” (costruzione geometrica e razionale).
La visibilità. Il vecchio rapporto tra testo e immagine, con le sue varie alterne vicende, nel caso di Calvino è un tutto-immagine. In quella che possiamo chiamare l’epopea della città e dell’architettura (Le città invisibili) il testo è al servizio della visibilità, quasi per illustrarla con la parola icastica. Forse qui c’è un aspetto interessante per il “futuro” (o ”per il prossimo millennio”, come dice Calvino). Nel dominio universale dell’immagine sulla parola, questa, camaleonticamente, si veste di immagine alla quale dà un plusvalore icastico.
La molteplicità. Si riferisce soprattutto ai piani narrativi di cui è massimo esempio l’opera calviniana Se una notte d’inverno il viaggiatore (1979). Vi si coglie lo zampino di Joyce, certamente sapientemente rielaborato al livello della processualità della scrittura.