Alle 03.32 di un Lunedi. Un boato, una sorta di enorme tuono frastuono emesso. Strumenti su corde tese, un coro infernale. Come se la mente stesse ricevendo una repentina scarica dove le sinapsi si scollegano improvvisamente e improvvisamente hai chiaro che qualcosa sta succedendo. Qualcosa si sta muovendo. È pur sempre una novità, una novità che celermente appare: l’umiliante eccezionalità di un terremoto.
Si parla spesso dei crolli, delle fratture, delle finestre e dei pavimenti che ballano, di tetti che cedono. Di lampadari che non smettono di oscillare. Non si parla mai di ciò che uno prova: un’ansia cronicizzata. Avverti il pericolo ma non lo individui. È intorno a te. Sopra di te. Dietro, sotto. Imprevedibile. Ci saranno travi, o mura portanti ma c’è una voglia di scappare ma il sintomo della sopravvivenza è bloccato, impietrito. È lo spazio a ballare. Sono due i secondi per un bacio affettuoso sulla guancia. Sono dieci i secondi di una corsa per cento metri. Sono trenta il tempo che impiego per rollare una sigaretta. Quarantacinque secondi bisogna scriverli. Quarantacinque secondi di un tempo non scontato. Poi, ad un certo punto, come un bicchiere convesso, ritrova la linea di una piatta calma.
Fui una dei tanti responsabili per la protezione e per il recupero delle belle arti. Una rocca e un ponte, ecco ciò che ci divideva dal tentare con estrema attenzione il recupero dell’intera collezione d’arte. Ci sono delle vere e proprie task force. Dei coordinatori. Tante gru si alzarono. E da quelle gru tanti pompieri. Una rocca con un fossato ampio e alto. Dopo un terremoto qualsiasi intervento può determinare la sorte. Qui no. Qui quella notte si lavorò per ore, tra ragionamenti e forze, tra impianti di metallo e corde.
Come se fossero dei cucchiaini immersi nel grande cappello del mago, tanti vigili del fuoco, uno dietro l’altro, si calarono, e agganciarono e tirarono in aria, nel cielo, ogni singola opera. Sculture lignee, croci rinascimentali, tele ad olio. Come delle margherite, ognuno sacrificò una risposta all’incertezza: anche questa opera si può imballare. Anche quella tomba, e quella scultura in terracotta si possono salvare.
Estraemmo dalle macerie morti, ori, legni, marmi, metalli e colori perché di queste cose sono fatte le cose dell’arte. Delle cose che si trovarono per lunghi attimi appesi ad una sentenza di morte. O meglio di una frantumazione totale. Non avemmo tempo, noi cittadini dell’Aquila, per sorprenderci del male. Perché quando arriva l’incidenza della perdita i vivi corrono a proteggere i vivi, e i vivi corrono per recuperare i morti.
Non esiste una parola per descrivere cosa sia un terremoto. Il silenzio è una messa da celebrare. Da alzarsi in piedi, senza applaudire. Perché in qualche modo lo spettacolo del mondo avrà sempre un muro da ricostruire e uno da abbattere.
Chi scompare, chi riappare, chi unisce e chi è disunito: è la grande folla umana che, quelle notti, una dietro l’altra, diventò una catena sociale. Nasce la paura di come ricominciare. È la cicatrice che non riconosce più nessun ago, e i fili continuano a strapparsi e il restauro diviene la cura umana per ricordare un fatto indimenticabile. Tra le vie e i tetti, io mi chiamo Maria e oggi, davanti a voi, in questa guida, non vi racconterò della storia artistica della mia città ma del perdono e del coraggio che i vivi sopportano e che i morti sono piegati a ricordare.
La forza della natura è salvare la nostra arte come la nostra pelle perché quella notte noi salvammo tutto ciò che fu possibile salvare. L’arte è anche un ricordo. L’arte è un restauro, la dignità di esporre ciò che siamo anche di fronte alle intemperie. Le rughe sono il riflesso dei tanti tentativi che facciamo, ogni giorno, per non oscillare. Salvaguardare la storia dell’arte è la missione umana per capire quando e come respirare.