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Acyle Beydoun. Le storie autobiografiche della fotografa in mostra a Milano

Un'opera di Acyle Beydoun Un'opera di Acyle Beydoun
Un'opera di Acyle Beydoun
Un’opera di Acyle Beydoun

Una nuova ambiziosa collaborazione tra due magazine che da anni si occupano di arte e cultura. Black Camera atterra su ArtsLife con una nuova sezione totalmente dedicata alla fotografia e alla cultura delle immagini.

Fino al 5 ottobre la galleria Still di Milano espone oltre 100 immagini che sviluppano i racconti visivi della fotografa libanese Acyle Beydoun, frutto di una matrice autobiografica

Oltre 100 immagini esposte propongono i racconti visivi di Acyle Beydoun, che sono deliberatamente il frutto di una matrice autobiografica. Tuttavia, seppur abbracciando l’autenticità di un percorso individuale, puntellato da brandelli diaristici, le sue fotografie riescono a svincolarsi dalla sfera personale ed esplodere in tutta la loro universalità comunicativa. A questo proposito Simone de Beauvoir, tra le pagine del saggio intitolato “Per una morale dell’ambiguità”, ci ricorda che: «Una delle funzioni dell’arte è fissare in modo duraturo un’appassionata affermazione di esistenza. […] Raccontando una storia, rappresentandola, la si fa esistere nella sua singolarità con il suo inizio, la sua fine, la sua gloria o la sua ignominia. Ed è così che in verità si deve viverla. Nell’arte gli uomini esprimono il loro bisogno di esistere in modo assoluto».

Nel lontano 1947 la filosofa francese utilizza quindi queste parole per compiere un parallelismo fattuale tra la decadenza storica dell’uomo e la sua necessità di lasciare un segno postumo, una traccia utile a qualificarne la virtù ereditaria. In questo maniera la femminista d’oltralpe sferra un colpo riformista al cuore della psiche collettiva e alle viscere delle sue sovrastrutture, andando così a provocare, in chiunque le legga, un totale ripensamento delle condizioni di esistenza terrene. Si tratta dunque di una volontà intenzionale, mirata a conquistare la libertà, anziché un processo di soffocamento succube della caducità degli eventi. Perciò, oggi, a quasi ottant’anni di distanza da questa impeccabile scissione intellettuale, e traslandola all’interno di una società creativa ormai satura di contenuti, ne riconosciamo la valenza demistificatoria.

Un'opera di Acyle Beydoun
Un’opera di Acyle Beydoun

Parabole gitane

Di fatto, l’identità frammentata di Acyle, eretta sulle ceneri di parabole gitane disegnate tra Beirut, Abidjan (Costa d’Avorio), Sidney e Milano trova una pacifica collocazione all’interno di un mosaico espositivo e risulta pertanto libera. Un’esperienza tangibile, attraversabile, nonché una sorta di bacino emozionale dal sapore mistico che consente ad Acyle di regalarci un accesso illimitato ai dedali della sua memoria. Attraverso una grammatica trasversale, in bilico tra sogno e realtà e operativamente affine alle allegorie spirituali del fotografo bahaiano Mario Cravo Neto, Acyle ci permette di scavare nell’anima del dislocamento geografico e dell’abbandono relazionale. Ragion per cui il suo obiettivo poliedrico, supportato da un approccio espressivamente psichedelico, restituisce gioie e dolori di uno stare al mondo condiviso.

All’atto pratico macerie grafiche di crudi scenari post-bellici, tipici della fotografia documentaria, grida rivoluzionarie e paesaggi umani intrisi di vivace concettualità si susseguono senza esitazione quasi manovrati da un moto di ribellione espressiva; una sorta di inondazione iconografica abile a frantumare i muri della normalità percettiva. Come una giovane Shirin Neshat, posseduta da una estati cromatica, Acyle si immerge nelle contraddizioni sociali, nel proibito, nella provocazione e nell’erotismo dimostrando di conoscere con esattezza la potenza sovversiva insita nella politicizzazione dello strumento fotografico. Per l’autrice l’utilizzo della fotocamera, che sia essa digitale, analogica oppure artigianale, sottende un costante processo di messa in discussione delle nostre certezze.

Un'opera di Acyle Beydoun
Un’opera di Acyle Beydoun

Introspezione patologica

Un culto dell’immagine che risponde a un unico credo narrativo: l’introspezione patologica. Ecco che volti scomposti, ritagli e sovrapposizioni cartacei, incursioni materiche e infine dolci dediche calligrafiche diventano simbolo dell’emotività umana. Un panorama utopico in cui luci taglienti, oscurità e pulsioni viscerali scandiscono il percorso convulso della nostra contemporaneità. Giovedì 28 settembre alle 18.30, alla galleria Still, è in programma un incontro con Alessio Fusi, il curatore della mostra, e l’artista Acyle Beydoun.

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