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Il Sole allo Zenit #13: The Catcher in the Rye e altre interruzioni

David Hammons, Bliz-aard Ball Sale, 1983, Cooper Square, New York Photographs: Dawoud Bey Cover courtesy Tilton Gallery, New York
Ritirarsi dal mondo dell’arte, o adottare una posizione antagonista nei confronti dei suoi meccanismi a dir poco ambigui: l’elenco è lungo e decisamente affascinante, in questa nuova puntata de Il sole allo zenit

“Anche basta!” Si saranno detti tutti quegli artisti che a un certo punto si ritirano dalle scene pur senza smettere di fare. E l’argomento è così affascinante che è già stato analizzato in tante occasioni diverse. Basterà a rinfrescare la memoria questo breve elenco senza troppo approfondimento: Marcel Duchamp, Agnes Martin, Cady Nolan, Elaine Sturtevant, Lee Lozano e perfino Maurizio Cattelan annunciarono il loro ritiro dalla scene, chi per un motivo, chi per un altro ancora, chi per chissà cosa. Tell Them I Said No è poi un’utilissima raccolta di saggi per mano di Martin Herbert che prende in considerazione diversi autori che si sono ritirati dal mondo dell’arte o hanno adottato una posizione antagonista nei confronti dei suoi meccanismi a dir poco ambigui. L’elenco anche questa volta è ampio e comprende il minimalissimo Stanley Brouwn (noto per rinunciare ai vernissage delle sue stesse mostre e a volte persino alla visite di esse), la leggendaria ma elusiva Lutz Bacher, l’anarchico e meteoritico Christopher D’Arcangelo, la taciturna e sfuggente Trisha Donnelly (che evita ogni possibile comunicato stampa e conferma la famosa frase “mostra spiegata mostra sbagliata”), David Hammons (scultore del temporaneo, tra palle di neve e opere di vario materiale), Agnes Martin (espressionista astratta che si prese sette anni di pausa uscendo dalla griglia di New York per riapparire in New Mexico poi), l’effimera Laurie Parsons, il paradisiaco Albert York, l’arrabbiatissima Cady Noland che manca (o forse mancava, perché qualcosa sta tramando Larry Gagosian) dai più di vent’anni dal settore e che si distaccò senza spiegazione nel momento di maggior attenzione, e la serissima e seriale Charlotte Posenenske.

Charlotte Posenenske, Square tubes Series D, T pieces, 1967 – 2019, courtesy Mehdi Chouakri

Charlotte, per esser precisi, non è che creasse veri e propri lavori ma selezionava piuttosto forme d’acciaio industriale che da chiunque potevano essere assembrate. Nel 1968 ritenne che l’arte non fosse sufficiente ad affrontare attivamente l’ingiustizia sociale e dedicò il resto della sua carriera lavorando come sociologa, pensandolo un campo più adatto alla sua amata crociata.

David Hammons, Bliz-aard Ball Sale, 1983, Cooper Square, New York Photographs: Dawoud Bey Cover courtesy Tilton Gallery, New York

Alcuni artisti invece si ritirarono temporaneamente per protesta, altri come atto concettuale deliberato, qualcuno per spoetizzazione e altri per necessità di interruzione. Anche Hans-Peter Feldmann, come altrove è stato scritto, aveva rinunciato a lavorare come artista per un periodo, dedicandosi ad un negozio di giocattoli di Düsseldorf. Il suo biglietto da visita del tempo aveva però il rinoceronte del Düren stampato, a perenne monito di una vera passione che in futuro avrebbe continuato. Goran Trbuljak, anonimo artista concettuale, come lui stesso amava definire la sua posizione, che non voleva mostrare niente di nuovo e originale al Centro Culturale di Zagabria, ad inizio anni ’70, smise per un periodo di creare dedicandosi all’insegnamento e – se ricordo bene – alla macchina da presa di qualche programma in televisione. E che ci fosse una critica al sistema si poteva già capire con i Sunday Paintings che eseguiva sulle vetrine di un negozio che vendeva tele per pittura in centro, fingendo che ad essere dipinta fosse la tela e non il vetro, con stupore dei passanti e con grande fastidio del commesso, costretto a ripulire la vetrina ogni lunedì mattina‬.

Hans-Peter Feldmann, business card, print on paper, 10,5×6 cm

Ma visto che “painting and writing have much to tell each other”, scriveva Virginia Woolf nel 1934, c’è una fotografia che mi assilla da quando l’ho vista, che ha a che fare con un ritiro a sua volta, seppure in un altro settore. E’ quella del grande scrittore JD Salinger, che detestava le luci della ribalta e rifuggiva le interviste, ad eccezione di quella che concesse agli esordi a un giornale scolastico territoriale (The Claremont Daily Eagle). Salinger divenne presto effettivamente antisociale, pubblicò racconti e novelle ma dopo Il Giovane Holden non scrisse altre opere lunghe. Nella primavera del 1980 Betty Eppes, una giornalista del Baton Rouge Advocate, scrittrice di incarichi speciali per la sezione Divertimento, decise di trascorrere le vacanze estive cercando di intervistarlo. La sua storia apparve nella sezione della rivista Sunday Advocate il 29 giugno 1980 e su numerosi altri giornali tra cui The Paris Review. La Signora Eppes, che si presentava come cittadina del Mississipi, che aveva abbandonato la scuola superiore, madre di tre figli, divorziata, giocatrice di tennis e editorialista (“scrivere è una compulsione e il tennis è il mio veicolo”, dichiarava), ex agente assicurativa, ex coniglietta di Playboy e collezionista di animali di peluche, annunciò al suo datore di lavoro del tempo di voler intervistare Salinger e il capo di redazione reagì ridendo, sostenendo che sarebbe stato più facile camminare sulla luna che parlare con l’imprendibile autore. Betty non si arrese, partì per Cornish in New Hampshire, cercò nella farmacia di Windsor e nell’alimentari in Cummins Corner dove recuperò il numero di telefono di JD. Chiamò e parlò con la sua governante che gli suggerì di non disturbare il Sig. Salinger ma di lasciare un biglietto all’ufficio postale.

Jerome David Salinger, photo by Betty Eppes, b/w image

La Sig.ra Eppes così fece. Scrisse che si guadagnava da vivere come autrice, che non voleva usurpare la sua privacy, che voleva sapere se scriveva ancora e che anche per lei comporre era difficile. Aggiunse che l’avrebbe aspettato per 30 minuti alle 9.30‬ la mattina seguente e che se non si fosse presentato l’avrebbe atteso anche quella successiva alla stessa ora, ma che poi se ne sarebbe tornata a casa, non potendosi permettere una permanenza più duratura. Non mancò di fargli sapere che era alta, con gli occhi verdi e i capelli rosso-oro, e che non avrebbe fatto ulteriori sforzi per cercarlo, perché non voleva farlo arrabbiare né causargli alcun dolore. Il tutto seguito da un PS: “Capisco perfettamente perché vive in questa zona. La sua bellezza è impressionante. Spesso mi ritrovo a sussurrare.”
Salinger apparve davvero, in jeans e sneakers. Lei lo tormentò con domande su Holden Caulfield e lui continuò a rispondere che era tutto nel libro, che avrebbe dovuto rileggerlo e che Holden era solo un momento congelato nel tempo, e che Holden non c’era più. Evase tutte le domande e alla fine se ne andò, proprio come nell’immagine.

Nicola Mafessoni è gallerista (Loom Gallery, Milano) e amante di libri (ben scritti). Convinto che l’arte sia sempre concettuale, tira le fila del suo studiare. E scrive per ricordarle. IG: nicolamafessoni

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