È una mostra silenziosa quella di Arianna Marcolin da Ex-Elettrofonica. Le sue interpretazioni di scampoli di fenomenologia domestica hanno un che di ovattato, grazie a una pittura addensata per strati, alla paziente ricerca della esatta corrispondenza luminosa, con l’esterno, e psicologica, con l’interno.
Ben al di là dall’essere meri esercizi topofilici, gli spazi resi da Marcolin sono appunti di una condizione esistenziale dell’abitare – la percezione dello spazio degli e tra gli oggetti, e tra gli oggetti e sé – che non può affrancarsi dall’essere anche registrazione affettiva e emotiva e, in finale, poetica. La storia di questa sensibilità domestica è stata scritta da illustri maestri dell’intimità casalinga, quali Vilhelm Hammershøi o, in misura minore, Georges Le Brun, pur sempre tentati dalla figura umana, dalla sua presenza a interloquire con chi guarda. Diversamente, nelle pitture di Marcolin l’osservatore è accompagnato in quei vuoti, quasi fossero quelle gabbie di costrizione baconiane ma abbandonate dai loro abitanti, per far coincidere il suo punto di vista con quello dell’artista (e abitatrice), un punto di vista naturalmente distante, ma allo stesso tempo familiare e in qualche modo condiviso.
La pittura di Marcolin, nonostante si concentri prevalentemente sulla raffigurazione riconoscibile di oggetti e luoghi, concede anche volentieri dello spazio a divagazioni informali, ad esempio lasciando che infiorescenze organiche fermentino in misteriosi brani astratti di superficie – un muro, una tovaglia – oppure sfrangiando la consistenza luminosa degli ambienti, e facendola colare in fantasmatici baluginii. È forse in questi frangenti che si avverte l’eco di fonti formali amate e meditate quali Bacon, Cremonini, Sarnari e, solo per il tenore di morbida malinconia della luce, Morandi. Per la pittrice scledense, tuttavia, le stanze e gli oggetti del quotidiano non sono meri pretesti, accidenti, solo funzionali a far parlare la pittura dello spazio, della luce, ma vere propaggini di una realtà intimamente vissuta, ricordata, abitata poeticamente, come suggeriscono alcuni titoli quali Niente oltre a mia madre mi è stato madre quanto questa vasca (2023) oppure Mai più (2020). E non si riesce a non pensare alla poétique de l’espace di Gaston Bachelard, alla sua definizione di casa come poema, sviluppata come un’articolata riflessione sempre in bilico tra psicologia e poesia. Di fatti non sorprende la presenza di un piccolo libro d’arte di complemento alla mostra, costruito dall’artista (che è anche tipografa) assemblando stralci di poesia contemporanea scelti dal curatore della mostra Andrea Malagamba, e che si rivela essenziale nell’invitare l’osservatore, quasi sussurrando, a perdersi tra livelli ulteriori di lettura poetica delle opere, inaspettati e inediti.
L’artista ha soggiornato a Roma durante la preparazione della mostra, avendo modo di applicare il suo modo operativo a un contesto non familiare ed estraneo, e un risultato, esposto, è la piccola veduta dall’interno di una chiesa, Sguardo Contundente (2023), che appare una sorta di miniatura, spiata attraverso un pinhole, in cui la luce zenithale romana sembra dissolvere e corrodere il mondo esterno, rappresentando un’interessante variazione sul percorso principale della mostra, e forse il segnale di una possibile apertura verso l’esterno della sua ricerca futura.