Nella vecchia sede del Monte di Pietà di Palermo video, sculture, opere grafiche e arazzi del grande artista sudafricano
Ci sono due modi con cui gli artisti hanno allestito le loro opere nella vecchia sede del Monte di Pietà di Palermo. Uno che parte dalla suggestione del luogo e modula la cifra stilistica fino a modificarne i tratti essenziali. L’altro che poggia sulla struttura preesistente e ne sfrutta le caratteristiche interpretandole come una cornice. Questi non sono solo modi diversi di occupare lo spazio, ma diverse relazioni con la memoria del luogo. C’è stato, infatti, chi in passato ha amplificato l’aspetto polveroso e soffocante dello stoccaggio dei beni impegnati quali ricordi forzatamente dismessi come fece Christian Boltanski (2000).
Più di vent’anni fa, Paola Nicita commentò così quella mostra: “[..] accumula gli oggetti riferendoli ad una specificità soggettiva, resuscitandone sentimenti e vicissitudini. Nella diatriba secolare tra materiale e immateriale, esistente e d’invenzione, la storia si confronta con il racconto che la tramanda. E contemporaneamente, in modo impercettibile o evidente, la modifica. La stratificazione delle esperienze scolpisce il ricordo e lo trasfigura nell’esperienza universale del riconoscimento”.
Teatralità disseminata
L’altro modo è stato quello adottato più recentemente da Marzia Migliora (2018) che ha disseminato nel labirinto di scaffali di legno gli indizi di un’opera centrale frammentandone il significato. Ora è la volta di William Kentridge che si confronta con lo spazio utilizzando la traccia sonora di un video, dal titolo You Whom I Could Not Save (Te che non ho potuto salvare). In questa installazione Kentridge ha inserito elementi tipici della sua opera come il megafono metallico, le sculture post dadaiste, i video nello spazio definito dalla curatrice Giulia Ingarao “Piranesiano”. Piccoli frammenti di una teatralità disseminata e, al contempo, unificata dal suono in un percorso di recupero di una manualità novecentesca, dai riverberi weimariani. In cui l’ibridazione tra figura e astrazione geometrica dà voce alla stesura di un’elegia del naufragio del dominio occidentale sul mondo.
Kentridge, ultimo bardo degli ultimi, per parafrasare una definizione di Marcello Faletra, ritorna a Palermo con due video e delle sculture, delle opere grafiche e dei grandi arazzi in cui si racconta il mondo postcoloniale. Ma è l’attrito tra astrazione ed espressionismo a far muovere l’animazione “a passo uno” dispiegata da Kentridge in flip book tra le pagine di testi che fungono da trama e ordito delle immagini. Immagini che sono motore intellettuale e coagulo semantico della parola trasferita sul piano della narrazione cinematica. Una narrazione la cui continuità è inceppata dall’errore manuale, dallo scarto genetico dell’artigiano. Questa caratteristica stringe un legame tra flusso del racconto e un segno iconico che conserva gli aspetti bruschi della traccia chirografica.
Svelamento del dramma
Lo slogan, che diventa motto di una figura, sembra riabilitare i fotomontaggi di Hanna Höch, o Max Ernst come dice ancora Giulia Ingarao: “Un tributo all’assurdo che attinge al caso dadaista e all’automatismo surrealista“. Un’operazione che fonde la bieca cultura imperialista con l’esotismo stereotipato genera un brulichio di combinazioni di ghiere rotanti. “Spirali di cielo e mare”, dirà l’altra curatrice della mostra Alessandra Buccheri. La nuova opera You Whom I Could Not Save (Te che non ho potuto salvare), è il vero nucleo di tutta la mostra. Questa installazione sonora di una proiezione è l’incipit della pièce teatrale intitolata The Great Yes The Great No. Che si svolge in un’atmosfera irradiata dalle musiche composte da Nhlanhla Mahlangu e dirette da Tlale Makhene. Con testi nelle lingue Nguni (IsiZulu, IsiSwati, IsiXhosa e XiTsonga).
Insomma, Kentridge a Palermo adotta l’impaginazione espositiva, ossia propone al pubblico saggi dei suoi linguaggi visivi usando il meccanismo dell’esposizione lineare e della teatralizzazione in cui include artatamente la declinazione del materiale locale. È questo il caso dei 16 disegni inediti realizzati su un libro contabile siciliano dell’Ottocento. La mostra è una rassegna sulla disinvolta maestria di questo grande artista contemporaneo unite dal sottile filo dello svelamento del dramma. Alessandra Buccheri commenta: “Uno svela-mento, come dichiara egli stesso, lontano da ogni aspirazione religiosa, ma che avviene attraverso il lavoro dell’artista. Il momento performativo in particolare è quello dove si ritrova un senso, una speranza, espressa nella citazione di Eschilo che chiude l’installazione: Cantate il dolore, ma alla fine il bene prevarrà“.