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Mario Sironi, un pittore teso tra la solennità e il tormento, è in mostra a Modena

Allegoria del lavoro, 1932-33, Olio su tela, 202 × 271,5 × 4 cm, Collezione Banco di Sardegna - Gruppo BPER Banca. ©Mario Sironi, by SIAE 2023
Allegoria del lavoro, 1932-33, Olio su tela, 202 × 271,5 × 4 cm, Collezione Banco di Sardegna – Gruppo BPER Banca. ©Mario Sironi, by SIAE 2023

La Galleria BPER Banca di Modena presenta la mostra Mario Sironi. Solennità e tormento, incentrata sul rapporto del pittore con la parola e sul suo animo teso tra l’esaltazione e lo sconforto. Dal 15 settembre 2023 al 4 febbraio 2024.

Le parole di Mario Sironi si scrivono sulla roccia, si incidono nella pietra. Sono moniti potenti, manifesti di grandezza, espressioni del gigantismo che volevano rappresentare (il Fascismo e le sue onanistiche ambizioni). Ma le parole di Sironi sono anche quelle dei giornali, traduzione grafica della quotidianità, della cronaca che si fa supporto di fortuna di una creazione che non può o non vuole attendere, nel timore che scompaia. Sono l’epitaffio sul muro o un indirizzo sulla busta, sono il messaggio roboante sul manifesto o l’appunto nascosto dietro una tela, che si nasconde eroso dall’angoscia. Se il linguaggio dà forma al mondo, le parole di Sironi riecheggiano l’anima spezzata di una persona che come un pendolo si muoveva dalla solennità al tormento.

Non a caso questi due poli, opposti ma in qualche modo conciliabili, danno il nome all’esposizione modenese presso La Galleria BPER Banca. La mostra, attraverso 42 opere (27 appartenenti alla collezione del Banco di Sassari, appartenente al gruppo BPER), testimonia dunque la doppia natura di Sironi. Un uomo imbevuto dell’esaltazione nazionalsocialista, di cui diventò artista di riferimento, con il solido ruolo pubblico di pittore di regime, chiamato a manifestare visivamente la grandiosità di un governo che si illudeva (e voleva illudere) di possedere un potere che non gli apparteneva davvero. E dunque la rigidità dei volumi immensi, il richiamo strumentale alla classicità e ai connessi valori conservatori, la severità del grigio e del marrone, l’evocazione della pietra e della monumentalità. Ma dietro la coltre di ferro e piombo, ecco una persona fragile, tormentata, sensibile, capace di dipingere paesaggi urbani tristi e solitari, figure drammatiche e isolate, nature morte impregnate di un pallido sentimento crepuscolare.

Sironi nel corso della sua vita è stato entrambe le cose, e probabilmente altro ancora. Lo è stato in modo parallelo, alternando un estremo all’altro, balzando da una prospettiva all’altra dello spettro esistenziale. Lo riflettono bene alcune opere in mostra, che dimostrano come l’esaltazione e l’abisso siano più vicini di quanto siamo portati a pensare. Utilizzando un’ampia gamma di medium – pittura murale, pittura scenografica, pittura da cavalletto, illustrazione, disegno e collage – l’autore ha dato espressione a lati diversi del proprio spirito, a tratti anche contrapposti, eppure intimamente legati.

A unirli, per esempio, la figura umana. Essa è al centro delle opere dall’impianto nobile, solenne, rivolto alla classicità, che trova la sua massima espressione nei progetti di arte murale e in programmi decorativi dominati da forme salde dalle linee ferme, posture austere, ordine, gravità, rigore, disciplina e compostezza. Tra queste spicca il grande dipinto Allegoria del lavoro, studio preparatorio di un affresco oggi distrutto, proposto con grande successo nel 1933 alla V Triennale di Milano. Ma la stessa creatura può essere anche fragile, disperata, abbandonata allo sconforto, come racconta lo struggente Penitente. In Figure, invece, i protagonisti del dipinto sono soli anche se accostati, non cercano dialogo, non si guardano, sono individualità impossibilitate a sciogliersi nel gruppo. Tanto che ognuno è rappresentato con stile differente, in modo da sembrare raggruppati casualmente sulla tela, la quale priva di sfondo li riunisce senza accoglierli.

Paiono provenire da un universo platonico, rarefatto, assoluto. Come le nature morte, che immerse nei loro sottili simbolismi lasciano attorno a loro solo un profondo silenzio. Lo stesso che permea i paesaggi urbani, carichi di desolazione e solitudine, monumentali ma fragili, con i quali riesce a esprimere quel senso di vuoto e di identità perduta tipico delle città metropolitane con le loro periferie in espansione, le grandi fabbriche dalle architetture essenziali, le ciminiere, i gasometri e i camion che percorrono strade vuote.

Ma talvolta queste idee – che una serie di bozzetti mostrano anche nella fase in cui erano, letteralmente, tali – si fanno letteralmente parola su manifesti, anch’essi studiati con una volumetria monumentale, spigolosa perché pensata per penetrare gli animi. La fascinazione per il verbo in Sironi è ben presente nonostante la sua vocazione a parlare per immagini, tanto da inserirle in molte opere, inserendole nel contesto (come iscrizione su un muro) oppure applicandole in modo quasi didascalico. D’altra parte per il pittore la sua arte aveva una funzione sociale, educatrice, era un discorso che partiva dal linguaggio scritto od orale per concretizzarsi in immagine. I suoi dipinti sono eco dell’etica del tempo.

Singolare coincidenza, proseguendo su tale analogia, che spesso Sironi – noto per disegnare su ogni supporto a sua disposizione – utilizzasse per i lavori preparatori il retro delle lettere, le buste e addirittura fogli di quotidiani (emblematico in tal senso il Mosè esposto in mostra). Seppure si tratta di bozze e non di lavori finiti, queste opere restituiscono in maniera tangibile l’aderenza tra parola e immagine, tra comunicazione e pittura, tra la cronaca e la sua sublimazione artistica.

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