All’inaugurazione della Stagione dell’Accademia di Santa Cecilia il film di Yuri Ancarani accompagna La Trilogia Romana di Ottorino Respighi
– Sicché a Santa Cecilia fischi e buuu al concerto d’inaugurazione della Stagione ’23-’24…
– Ti rendi conto? Praticamente un miracolo. Una palingenesi. Infranta d’un colpo la consuetudine dell’unanime e molle consenso di un pubblico svogliato, disattento, disinformato e per niente curioso che stava affossando il glamour di andare al Parco della Musica per ascoltare l’Orchestra e il Coro dell’Accademia, dispensatori invece di una qualità artistica che non ha eguali nel resto d’Italia. Nemmeno il più audace e cacofonico “nuovo pezzo” commissionato dall’ente stesso a un qualunque autore contemporaneo ed eseguito a inizio serata prima di un Brahms o di un Čajkovskij (per farsi perdonare l’azzardo) riusciva più a scatenare ostilità e dissensi come quelli dell’altra sera. Ci è voluta la geniale intuizione della direzione artistica di affidare a Yuri Ancarani un vero e proprio film a corredo dell’esecuzione diretta da Iván Fischer dei tre poemi sinfonici romani di Respighi per risvegliare dal torpore i vetusti abbonati e restituire loro la pasionaria veemenza critica perduta.
– A dire il vero, su Facebook ho letto commenti negativi e irridenti anche da parte di qualcuno più giovanotto… Al di là di valutazioni tipo “un film orrendo”, “insensato”, “una vera bufala”, c’è chi lamenta la distrazione imposta dalla visione di un film e di immagini, riferisco, “estranee alla musica di Respighi e montate a vanvera” durante l’ascolto di un concerto sinfonico…
– Intanto la musica di Respighi, ovvero la sua Trilogia Romana (che è pure il titolo del film di Ancarani), è tra le più descrittive che esistano: abbinarle delle immagini sorge quasi come un’esigenza spontanea, ascoltandola. Quando nel 2007 l’Accademia di Santa Cecilia e Antonio Pappano decisero di affidarmi un film per illustrare “Pini di Roma”, “Fontane di Roma” e “Feste Romane”, filmare gli stessi luoghi che danno il titolo alle diverse sezioni dei tre poemi e associare il materiale girato alle tre partiture di Respighi fu una lavorazione molto gratificante: talmente puntuali sono i “gesti” dell’orchestra, i ritmi, le modalità sentimentali variabili da luogo a luogo nelle diverse ore del giorno, che al montaggio non ho dovuto fare altro che lasciar corrispondere dettagli, zoomate e panoramiche a quello che tutti gli strumenti già “dipingono” per le nostre orecchie: tutto è così lampantemente visibile, specialmente per chi a Roma ha la fortuna di esserci nato e vissuto, che è impossibile non immaginare, anche a occhi chiusi, quello che viene descritto in maniera così esatta dall’orchestra. Ricordo che quando sottoposi a Pappano (ai tempi non ancora “Sir”) l’editing provvisorio delle Fontane del Tritone e di Trevi, dove avevo mantenuto il sonoro ambientale, se ne uscì tutto contento dicendo: “Ecco cosa manca alla musica di Respighi per essere perfetta: il suono dell’acqua vera!”… Perciò il discorso delle immagini che distraggono dall’ascolto non sta in piedi. Quello che ha disorientato il pubblico della Sala Santa Cecilia è stata piuttosto l’assenza, sul grande schermo alle spalle dell’orchestra, dell’oleografia zeffirelliana e cartolinesca della Capitale, o anche solo e semplicemente la didascalia pedissequa (che per fortuna mancava anche nel mio film con Pappano) ornata di droni e grandangoli in stile Angela o Cazzullo.
– Ci sono però delle vie di mezzo tra l’oleografia e, presumo, la concettualità di un’opera in video di Yuri Ancarani, abituato a confrontarsi con il pubblico delle biennali e delle gallerie di arte contemporanea, o sbaglio?
– Senz’altro! Ma ha fatto benissimo l’Accademia di Santa Cecilia a proporre un’operazione culturale così innovativa ed eccentrica. Se il pubblico non ha capito e ha contestato, pazienza. Resta il passo avanti importantissimo compiuto da un’Istituzione che maneggia materiali artistici di epoche passate nel tentativo sacrosanto di renderle sempre attuali. Mi dirai piuttosto: come mai in platea non c’erano seduti anche critici cinematografici e critici d’arte contemporanea? Dov’erano Francesco Bonami, Massimiliano Tonelli, Ludovico Pratesi? Perché non sono stati invitati insieme ad Alberto Crespi, Mario Sesti, Mariarosa Mancuso, che ne avrebbero magari scritto sui quotidiani commenti illuminanti? Ecco, questo è stato un errore grave che imputerei alla Comunicazione dell’Accademia di Santa Cecilia, lodevolissima nel proporre un prodotto avanti anni luce rispetto a quanto si vede a Berlino, Londra, Parigi o New York, ma ingenuamente inattiva sui canali delle discipline che l’operazione stessa ha rappresentato e coinvolto. Ancarani è il massimo videoartista italiano, con “Atlantide”, presentato al Festival di Venezia due anni fa, ha dimostrato di saper “guardare” una città tra le più fotografate al mondo come Venezia, inquadrandola e mostrandocela in maniera decisamente “mai vista” con risultati di enorme suggestione. Chi altro, quindi, se non lui avrebbe potuto posare un occhio così inedito su Roma, città-luogo-galassia tra le più frequentate, viste e straviste, fotografate e battute da ogni sorta di medium audiovisivo? Un artista, poi, non è un documentarista. L’idea di Roma sulla quale Ancarani ha impostato questo suo nuovo lavoro comportava di ignorare i titoli e le didascalie delle diverse sezioni dei tre poemi sinfonici, dedicate ciascuna a un luogo preciso, ognuno restituito da Respighi con una verosimiglianza sonora e sentimentale stupefacente: riascoltando oggi, per esempio, la Fontana di Valle Giulia, un tempo frequentata dalle greggi di pecore al pascolo con i loro pastori, non può non venire in mente il rumorosissimo tram su rotaia che le passa davanti ogni tre minuti… Vivendo ormai in un’epoca che potremmo deciderci ormai tutti a chiamare “post-contemporanea” – il Post-moderno ce lo siamo lasciati alle spalle almeno dall’11 settembre 2001 – in questo calderone, in questo minestrone di immagini vere, finte, più o meno artificiali, Ancarani butta dentro tutti i luoghi, i profumi, le emozioni, le luci, i colori di quanto descrive Respighi distribuendoli in ordine sparso nel corso della visione in un racconto visivo dedicato inevitabilmente alla Roma di oggi. Non perché ci sia bisogno di “aggiornare” sempre tutto, secondo quel bisogno presunto di “attualizzare” Verdi, Mozart, Wagner che troppo spesso affligge gli allestimenti odierni dei teatri d’opera italiani e stranieri (con la scusa di “avvicinare i giovani all’opera”… Siamo proprio sicuri che sia questa la ricetta?), ma perché la sua sensibilità di artista gli ha suggerito di fare così, sensibilità che ben conosceva chi lo ha scelto e coinvolto nel progetto inaugurale della Stagione Sinfonica ‘23/’24. Già Respighi si era discostato dalla Roma sognata e nostalgica delle pur deliziose vedute ottocentesche di Roesler-Franz aguzzando le orecchie verso tutto quello che stava accadendo, o era appena accaduto, nella musica europea agli inizi del nuovo secolo: i timbri e i colori delle sue partiture contengono echi di Rimsky-Korsakov, Mahler, Richard Strauss, Debussy, addirittura Ravel e Stravinsky, arrivando con raffinata e coltissima immaginazione sonora a inventare nuove suggestioni paesaggistiche. Una musica proiettata in avanti, sulla spinta dello svecchiamento e della modernizzazione del regime fascista, che in quegli anni, prima con l’Istituto Luce, fondato nel ’24, che è l’anno di composizione dei “Pini di Roma”, e più tardi con Cinecittà si sarebbe dotato di due formidabili strumenti di propaganda per imporre la visione mussoliniana di una Roma moderna reimmaginata a sua volta come enorme contenitore di eternità (ed eternità vuol dire passato, presente e futuro, ad libitum) dove riedificare e rivivere i fasti del glorioso passato imperiale. Perciò Ancarani usa come colonna sonora questo “suono di Roma” ricreato da Respighi come in un sogno diviso tra echi del passato e suggestioni presaghe di futuro, partendo proprio dagli archivi del Luce e dalla fondazione di Cinecittà, che a regime caduto accoglierà la fabbrica dei sogni della Hollywood sul Tevere e per i film “peplum” riedificherà in quinte, fondali e scenografie monumentali le finte architetture dell’antica Roma nei pressi dei ruderi autentici degli acquedotti, dei mausolei, delle basiliche e delle vie consolari. In un’unica arcata, con un paio di brevi intervalli corali con brani sacri di Franz Liszt, che a Roma soggiornò spesso e volentieri, eseguiti a cappella e fuori scena dal Coro dell’Accademia con effetto di gran suggestione mistica e aurorale, il film riunisce i tre poemi sinfonici sovvertendone liberamente l’ordine cronologico di composizione. Dalla nascita di Cinecittà il racconto si spinge oltre “Ben-Hur”, “Barabba”, “Cleopatra”, fino al cinema di Antonioni, Fellini, Rossellini, alla Roma cinematografica degli anni ’50 e ’60, ritrovando oggi nello sguardo della giovane comparsa di un Western (una specie di Parsifal biondo e con gli occhi chiarissimi che spaesato e annoiato attraversa a cavallo le vere rovine di Villa Adriana e quelle finte del Cinecittà World sulla Via Pontina), tra gladiatori mascherati e ragazzini multietnici che danzano (sulle note della “Befana” di “Feste Romane”!) passi svelti e modernissimi davanti al Colosseo o alla Fontana di Trevi, quello stesso sguardo con cui Respighi seppe intercettare nel “luogo” per eccellenza che è Roma l’immanenza del più eterno Genius Loci della galassia. Il giovane cow-boy/Parsifal non sembra accorgersene, sonnecchia ignaro sui mosaici e (forse in sogno?) vaga e scompare tra i ruderi. Ma il Genius Loci, tu m’insegni, anche se oggi nessuno fosse più in grado di riconoscerlo (come il film sembra suggerire), è sempre lì e lì rimane. Troppo concettuale? Eppure era tutto così chiaro, evidente, comprensibile. Altro che “insensato”!… Sarebbe ora che a Santa Cecilia si pagasse il biglietto non solo per ascoltare come meglio non si potrebbe altrove in Italia la migliore musica sinfonica del mondo, ma anche per venire irrorati di stimoli e concetti che dal film di Ancarani sprizzavano come radiose idee PLATONICHE (alludo alla cavernosa Sala di Renzo Piano), in gioiosa danza tra passato remoto e attualità, sullo scenario di una Roma “parco a tema” di se stessa, fondale e quinta ormai senza connotazione temporale di ulteriori finzioni e ulteriori rimandi a chi c’era una volta e a chi c’è ora…
– Non pensi che al pubblico sia forse mancata un’introduzione, una spiegazione dell’artista, un po’ come faceva Pappano prima di eseguire una prima assoluta per renderla più digeribile?
– Sì, forse hai ragione. Ma ormai è fatta.
– Due paroline sull’esecuzione di Fischer?
– Ecco, semmai la delusione a me è venuta proprio da lui. Bacchetta magnifica, a suo agio perfetto con la classicità, il tardo romanticismo e la prima modernità della Mitteleuropa, il grandissimo Iván Fischer mi è sembrato come intimidito, direi addirittura ingessato da queste partiture così brillanti, senza riuscire a rivelarne la vera sostanza dietro l’apparenza di esteriorità descrittiva che in molti continuano a rimproverare, liquidandole come “datate”.
– Meno male che c’era Ancarani, allora!
– Assolutamente. È stato lui a indicare nuovissime prospettive di visione e di paesaggio, fatte salve le immancabili greggi di pecore, e sfrondando via definitivamente ogni possibile rischio di voler continuare a caricare questa musica così ben scritta di una polvere ideologica che troppo a lungo ne ha compromesso l’ascolto. Viva Ancarani! Viva Respighi!
– E forza Roma!
– Beh, oddio…