Il Bahamuth, secondo una leggenda araba, è un pesce colossale che sostiene il mondo.
Sulla sua schiena sta un toro, che sostiene un rubino, che sostiene un angelo, che sulle sue spalle regge il mondo intero. Il Bahamuth nuota nel lago dell’ignoto. Attorno a lui, tutto è oscuro.
E infatti Rezza in questo spettacolo è molto fosforescente e traforato, Rezza che questo spettacolo non l’ha mai scritto, mentre lo spazio in cui si muove, anzi corre senza sosta, è una stanza di cui conosciamo solo il perimetro, fosforescente appunto e tre pedane, una fisica gialla e due elastiche verdi, immerso nella cosmica oscurità.
Da cui Antonio Rezza, accompagnato da due eccellenti schiavi, non saprei come altro definirli, Manolo Muoio e Neilson Bispo Dos Santos, furbi e veloci quanto lui, sprizza follia senza sosta.
Del mitico pesce nessuna notizia, ma di un qualche creatore con cui lui ha sempre da ridire, sì, e noi da ridere, spesso a crepapelle.
Un essere supremo e megalomane di cui i due denunciano comicamente i continui abusi, un dio a cui non gliene frega niente, un tiranno, un atleta, un nano. La famiglia come fonte di tutte le disgrazie insieme all’avidità umana, di dovizie, sessuale e sensuale, in un girotondo senza sosta attraverso le pareti invisibili di questa stanza onirica senza pareti. L’habitat della Mastrella questa volta è ispirato dalle sue ricerche sui giocattoli abbandonati sul bagnasciuga delle spiagge laziali.
In questo habitat Rezza scia, salta, si appende a un tronco, esplode più volte.
Il pubblico fatto sia di ottuagenari che di giovanissimi, tutte le età presenti, esplode con lui.
Sempre Rezza e sempre nuovo, in un’intervista dice: “Siamo fenomeni pop che andrebbero ospitati negli stadi. Così il pubblico si avvicinerebbe al talento e potrebbe migliorare la propria estetica. Potremmo essere dei fari, ma credo che lo saremo solo da morti”.
Non morite mai Rezza e Mastrella, a noi piacete vivissimi!
Bahamuth, di Rezza Mastrella, Teatro Elfo Puccini, Milano