Non c’è occasione migliore della grande retrospettiva che la Fondation Louis Vuitton di Parigi dedica a Mark Rothko per capire i misteri di un artista tanto celebre quanto divisivo. Dal 18 ottobre 2023 al 2 aprile 2024.
Pochi artisti riescono ad essere divisivi come Mark Rothko. C’è chi di fronte ai suoi quadri trova il raccoglimento spirituale a cui nessun’altra confessione gli ha mai dato accesso. Come potrebbe accadere, ad altre persone, ai piedi di un altare o sulla vetta di una montagna. Vi è poi un’altrettanto nutrita schiera di osservatori che – pur appassionati d’arte, magari anche d’arte moderna e contemporanea – vedono nelle distese di colore dell’artista una pianura arida, sterile, muta, pure fastidiosa per pretenziosità e ambizione, una sorta di presa in giro. Chi lo ama trova nelle sue opere una porta per una dimensione ulteriore, chi lo odia si sente caricato di una responsabilità eccessiva, come se fosse lui a dover colmare con la propria quota spirituale l’ermetismo di lavori che in fondo non sono altro che macchie di colore.
Si tratta forse di una questione di allineamento, di risonanza interiore? Nessuno, d’altra parte, costringe nessuno ad apprezzare nessuno, l’ipotesi di una lobby rothkiana che inganna il mondo dell’arte per fini misteriosi (economici?) è ridicola oltre che fantasiosa. A qualcuno, insomma, Rothko parlerà eccome. Magari ad altri non fa assolutamente nessun effetto, anzi, per loro sarà l’emblema di un’arte retorica e vuota, priva di tecnica e contenuto, specchio per le allodole radical chic che, prive di parole per esprimere il loro interessamento artistico, preferiscono lodare opere che quasi per definizione non possono essere spiegate. Una soluzione comoda per fare gli intellettuali senza sforzo, insomma.
Per coloro che invece, al contrario, sono dunque intellettuali veri, disposti a impegnarsi per comprendere le dinamiche antistanti ogni manifestazione umana, ecco qui qualche spunto per comprendere meglio la pratica di Rothko. A fornirceli è la grande retrospettiva che gli ha dedicato la Fondation Louis Vuitton di Parigi. La migliore occasione per godersi 115 opere del pittore tutte insieme, una in fila all’altra. O per provare a farsele piacere.
Non solo quadri astratti
Sempre per quanto detto sopra, l’astrattismo – soprattutto se informale, quindi svincolato da geometrie o accenni figurativi – presta il fianco a critiche superficiali: “l’avrei fatto anch’io“, “non significa nulla“, “così sono buoni tutti“. Posto che esistono artisti pienamente legittimati dalla loro sola opera astratta, può aiutare a digerire la loro pratica non figurativa il fatto che prima di approdare ad essa ci sia stato nella loro carriera un momento, appunto, figurativo.
Un esempio eccezionale, in tal senso, è Gerhard Richter, partito dall’iperrealismo e dopo vari passaggi arrivato all’astrattismo. Perché, a suo dire, trasmetteva meglio ciò che sentiva. E a lui, di certo, non si può criticare il fatto di non saper dipingere. Anche Mark Rothko, prima di esprimersi per campiture di colore, ha dipinto quadri figurativi. E con più stili. La mostra si apre infatti con scene intime e paesaggi urbani – come le visioni della metropolitana di New York – che dominano la produzione di Rothko negli anni ’30, prima del suo passaggio a un repertorio ispirato ai miti antichi e al surrealismo che utilizza per esprimere la dimensione tragica dell’essere umano. Soprattutto in tempo guerra.
Posto che si può criticare il suo scarso mimetismo (ma almeno questo vincolo, teoricamente, dovremmo averlo superato), può essere ora più chiaro come le fasi successive siano l’esito di una ricerca precisa e non una trovata estemporanea e priva di riferimenti. É solo nel 1946 che Rothko compie infatti un importante passo avanti verso l’espressionismo astratto, solo dopo aver esaurito una lunga fase figurativa. Il primo accenno in tal senso sono i Multi-forms, dove disparate masse cromatiche sono sospese in una sorta di equilibrio precario sulla tela. Man mano gli elementi vanno poi diminuendo, lasciando spazio a forme rettangolari disposte su due o tre livelli, che occupano tutta la tela in un modo uniforme. Le opere “classiche” di Rothko nascono quindi pienamente solo negli Cinquanta, dopo che l’artista aveva sperimentato almeno tre o quattro importanti soluzioni stilistiche.
Dal vivo è meglio
I colori non sono solo colori. O meglio, è chiaro che lo siano, ma spesso un colore porta con sé una ricerca che si estende ben oltre la semplice manifestazione dei pigmenti disposti sulla tela. Yves Klein, per esempio, ha vissuto in Giappone, studiato a lungo e tentato molto prima di sviluppare il suo blu, unico e inimitabile, veicolo per le sue istanze filosofiche. Ci sono lunghi testi, poetici e tecnici, che spiegano quanti elementi ricadano in quella tonalità di blu. Oltre ovviamente alle sperimentazioni chimiche necessarie allo sviluppo pratico di un nuovo e specifico colore.
Se Rothko non è arrivato al punto di sviluppare una sua creazione, ha però combinato e ricombinato i colori al fine di ottenere le giuste soluzioni. Per contrasto, per assonanza, per affinità visiva. Vedere così tanti suoi dipinti affiancati, restituisce un’idea immediata ed eloquente della varietà di soluzioni scovate. Dà l’opportunità di appurare in modo tangibile le modalità tramite cui interagiscono tra loro, le connessioni reciproche che attivano passando da toni vivaci ad altri molto più gravi.
Dal vivo si possono apprezzare le discordanze tra le sfumature, evidenti soprattutto ai bordi, che per immagine suggeriscono una monocromia che in realtà non sussiste. O di contro si può ammirare il modo in cui il pittore riesce a suggerirla, questa monocromia, trovando scarti minimi tra un pigmento e l’altro, giocando con la percezione dell’osservatore e offrendo in modo evidente l’eterogeneità cromatica che la luce, su una superficie, può donare. Tipo la Cattedrale di Rouen di Monet, ma senza cattedrale.
Rothko era un integralista
Nel 1958, Rothko riceve l’incarico di produrre una serie di dipinti murali per il ristorante Four Seasons, progettato da Philip Johnson per il Seagram Building di New York. Il gruppo di opere, effettivamente realizzate, prendono oggi il nome di Seagram Murals, anche se nel Seagram Building alla fine non sono mai arrivati. All’ultimo Rothko si tira infatti indietro dal progetto, giudicando il ristorante “un posto dove i bastardi più ricchi di New York andranno a nutrirsi e mettersi in mostra“. Nonostante avesse praticamente completato il lavoro, rinunciò alla commissione per non venire meno ai propri ideali, oltre che per impedire che le sue opere finissero in un contesto dannoso per la loro corretta fruizione.
Proprio in quest’ottica, nel 1969 decise di cedere la maggior parte del gruppo (9 opere) alla Tate Modern di Londra, che gli dedicò immediatamente una sala che sarebbe poi divenuta storica. Eccezionalmente questa sala è stata oggi trasportata da Londra a Parigi, dove viene riproposta integralmente in mostra. Un’occasione sostanzialmente unica per vedere queste opere fuori dal Regno Unito.
Si tratta di dipinti dai forti toni rossi, viola e marroni, che più di altri suggeriscono la forma di una porta, un varco, un portale. Pensati per essere esposti congiuntamente, essi evidenziano la prospettiva ambientale, totalizzante, immersiva per cui Rothko aveva immaginato i suoi lavori. Se tali condizioni non erano presenti, valeva la pena annullare tutto. Non a caso le situazioni in cui l’artista è più apprezzato sono proprio quelle di queste tipo: la già citata sala della Tate, la Rothko Room (1960) della Collezione Phillips (anch’essa trasportata in mostra) e la Rothko Chapel di Houston (1971).
Frapporre una persona tra te e Rothko
D’accordo, il titolo del paragrafo dà adito a qualche battuta ad uso e consumo dei detrattori più ilari dell’artista, soprattutto per chi di Rothko vuole vedere il meno possibile. Per tutti gli altri – o anche per i primi, una volta che hanno finito di ridere – provare ad osservare le opere del pittore frapponendo in mezzo un’altra persona può essere una modalità utile ad ammirarle da un’altra prospettiva. Come si lancia un sasso sul fondo un pozzo per capire quanto è profondo, come si guarda un aereo passare per capire quanto è vasto il cielo, come si prende per riferimento un uomo per intuire l’altezza di un monte, allo stesso modo una persona davanti a un’opera di Rothko ci restituisce un’idea più chiara della sua potenza.
Nonostante la natura astratta, la dimensione dei suoi dipinti è umana, è ideata per misurarsi con noi. Osservandoli ritagliati da una sagoma, possiamo così ammirarne l’effetto dispiegarsi senza esserne personalmente coinvolti, da esterni, o essendone coinvolti indirettamente. Vediamo più lucidamente i colori pulsare attorno alla persona, assorbirla lentamente, chiamarla a sé in un gioco di luce e pigmenti; la vediamo avvolta, immersa in un abisso nebuloso, misterioso, attirata sulla soglia di qualcosa di ulteriore; su di essa possiamo più facilmente proiettare la nostra coscienza, immedesimarci, comprendere come essa può risuonare in una distesa di mari orizzontali, alzati verticalmente, posti a strapiombo su di noi.
Non a caso, nell’ultima sala, la più alta del museo, le opere della serie Black and Grey sono affiancate alle sculture di Alberto Giacometti. Sono le sue classiche figure, alte e scarnificate, che ad ogni passo sembrano lasciare brandelli di sé alle loro spalle. É l’uomo del Novecento, sconfitto e lacerato, che però non rinuncia alla riflessione e all’esercizio dello spirito.