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Che io sia l’ultima, che dalla vostra consapevolezza sia risarcita

Particolare (viso) di Ophelia di John Everett Millais, 1851-52, Tale London (UK)
Particolare (viso) di Ophelia di John Everett Millais, 1851-52, Tale London (UK)

Il buongiorno dell’arte è un caffè con la Moka. Senza più zucchero.

Maldestra la mano che strinse il mio petto in fiore, io senza provocazione, di rassegnata sincerità, mi atterrì al muro. A terra mi urlò. Lento e lento il tempo come caduca-caduta foglia bisbigliò in quella via, non lontano da riflettori e industriali luci, l’odore della violenza. Ghiaccio nel suo calore, le stagioni della vita persero ogni candore. Al mattone del muro contrapposi la fermezza, lo spingevo indietro ma non ebbi vittoria del suo veloce governo. Cittadina della materia mia lasciai che la legge dell’uomo principiasse sulla mia. Gloria e torpore di saliva. Si allontanò, si arrestò, forse intimorita, ombra da altre ombre.  Silenzio e di sole lacrime dalle mie palpebre. Se ne andò il buio, mi prese, senza comunicare. Ancora mi chiedo quel fosse il mio errare.

Questo è il pensiero della donna che ora slitta inerme, adagio, sul corso dell’acqua. Non c’è sangue perché non esiste oscenità peggiore della presa di coscienza che tutto fluisce, senza arbitrio. Come se fossimo ad un laboratorio di teatro: l’obiettivo è di non mangiare le battute dell’altro. Attendere il tempo del partner senza perdere il ritmo della risposta. Benvenuti nella realtà dove tutto è finto ma niente è falso.

Particolare (mano) di Ophelia di John Everett Millais, 1851-52, Tale London (UK)

Ora mi osservate, piena di fiori. Circondata da boccioli in fiore. I miei colori sono stati puliti come un pennello dalla tavolozza, su un canale sporco, intriso, lungo il dirupo delle tante parole contraddette. Quante volte si cercano le parole giuste per trovare le giuste pose? L’uomo è l’analfabeta dei sentimenti, si saltano le coniugazioni e si arriva alle mani degli imperativi.

Mi chiamano come il salice piangente. Ma il mio nome è donna. Perché ci chiamano cosi, questo non è dato sapere. Forse perché salici ci pieghiamo al dovere della natura ma, noi, dalla natura, non ne nascondiamo le fronde ma ne proteggiamo le nostre radici.

Il primo giorno mi prese, senza respirare, in un lungo abbraccio. Il secondo mi nascose un fiore e senza parlare domandò dove crescessero i salici, così indipendenti e robusti. Il terzo giorno arrivò con una foglia, stretta e lanceolata, con una punta allungata e margine seghettato. Verde, quasi verde-azzurra. Guardandomi mi chiese cosa potesse avere in cambio. Seguire l’amore è la scelta di correre lungo due binari. L’ultimo giorno mi condusse al lago. Mi fece vedere altre foglie. Un lungo, infantile bacio. Le ultime parole sono mormorii che si incastrano tra scogli e ranuncoli. Lui con una pietra in mano, nel buio della freschezza autunnale, spense la bellezza, si chinò e gettò fiori e foglia. Un salice tra i denti, lo strinsi e si piantò, senza terra su cui crescere.

Un pettirosso decantò il sacrificio. Lì sui rami spioventi, giù caddero i suoi fioriti trofei. Le vesti si allargarono. L’ora disperata è ortica alla vita. E come margherita, innocente, persi l’anima lungo la risalita. Sfoltita, mai sfuggita dalla sua sortita. La via di uscita: che io sia l’ultima, che dalla vostra consapevolezza sia risarcita. Donna, colonna. Siamo ora tre giovani donne che tengono, da stasera, in braccio le pelli di un’orchestra.

Salvador Dalì, Three Young Surrealist Women Holding in Their Arms the Skins of an Orchestra, 1936, The Dalí Museum, St. Petersburg, FL (USA)

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