Una mostra collettiva in una antica villa, “Dimensão Cidade”, e un incontro con un pittore fuori dagli schemi, R.Trompaz, per raccontare come nel Paese che oggi più che mai supporta le minoranze il problema della disuguaglianza sociale sia ancora vivissimo. Partendo proprio dall’abitare
Chi pensa che la Grande Mela sia l’unica metropoli a possedere l’allure dello “state of mind” dovrebbe farsi un giro a Sampa, per schiarirsi le idee. A proposito, Sampa è il nome che comunemente viene dato a São Paulo da quando, nel 1978, Caetano Veloso la immortalò con questo neologismo nell’omonima canzone, che divenne il marchio di fabbrica della San Paolo vibrante, affascinante, perennemente in movimento e, chiaramente, contraddittoria. Eppure gli omaggi della musica, della letteratura, dell’arte visiva a questa megalopoli che – comprendendo l’area metropolitana delle città satellite – conta qualcosa come 22 milioni di abitanti, sono stati innumerevoli. Iconiche sono le architetture di Sampa, come le sue disparità sociali.
Oggi mescoliamo tutte le carte, e nella città dei viadotti e della garoa (la pioggerella che vaporizza São Paulo in tutte le stagioni) entriamo in uno spazio decisamente curioso: è la Casa das Rosas, costruzione in stile francese realizzata negli anni ’30 del secolo scorso, guardando alla Reggia e ai Giardini di Versailles, quando l’Avenida Paulista era la strada delle dimore dei baroni del caffè.
La Casa das Rosas faceva parte di un congiunto di vere e proprie ville su più piani, eclettiche, che nel secondo Novecento sono state rase al suolo per far spazio ai grattacieli che hanno donato a San Paolo la sua verticalità vertiginosa. Progettata dall’architetto Francisco de Paula Ramos de Azevedo (già progettista anche della Pinacoteca, del Teatro Municipal e del Mercado Público) la Casa das Rosas – oggi di proprietà del Governo di Stato e ovviamente edificio sotto tutela – ha riaperto da pochissimo dopo un restauro durato quasi due anni, ospitando una sezione permanente dedicata alla storia architettonica di Sampa, ma anche mostre temporanee.
“Dimensão cidade”, a cura di Paula Borghi, riunisce le opere di 15 artisti contemporanei che sulla dimensione urbana lavorano, attraversando i più svariati mezzi e poetiche.
Tra i partecipanti, con un’opera place-specific di cinque metri di larghezza, c’è R. Trompaz, uno degli artisti più curiosi in circolazione da queste parti, il cui lavoro pittorico è completamente avulso dai “canoni globali” della pittura contemporanea.
R. Trompaz ha scelto di eliminare il proprio nome per trasformarsi in una entità parola-chiave, anche se in realtà “codice” è un termine che gli si addice di più. Trompaz ha studiato alla Facoltà di Belle Arti di São Paulo, formandosi in Design Grafico, anche se i contatti con Picasso, Portinari, Volpi, Tarsila e le tecniche di disegno sono arrivati già nell’infanzia, nella periferia della metropoli dove ha vissuto con la famiglia, arrivata dal Minas Gerais.
Appassionato di moda, brand, loghi, influenzato dalla sua città, dall’architettura, e ben consapevole della disuguaglianza che marca a fuoco il Brasile, come chiusura del suo percorso universitario ha sviluppato un libro diagrammato, iniziando così ufficialmente la serie SSGE, ovvero Segregação Social Geograficamente Escancarada: Segregazione Sociale Geograficamente Esposta.
Un concetto che di primo acchito può essere di non facile lettura per chi non è avvezzo con le tematiche dei problemi dell’abitare, ma che l’artista affronta in maniera del tutto aperta, affidandosi alla metafora del gesto pittorico.
«Esiste una forte disuguaglianza sociale nelle abitazioni e quindi nella geografia della città; io raccolgo la sfida di mostrarla più di quanto già non si mostri nella sua evidenza – per chi vuol comprendere, chiaramente – visto che molto spesso si innesca un meccanismo di censura nei confronti di questo fenomeno», spiega R.Trompaz, che mostra come la sua pittura sia solo in apparenza astratta: per chi già la conosce e chi ha pazienza di osservarla attentamente si schiudono uno ad uno innumerevoli elementi figurativi: il metrò con i suoi simboli, case, alberi, barche, aquiloni, nuvole. Sono quasi forme infantili, che nascono senza fare bozzetti o disegni preparatori: R.Trompaz lavora in presa diretta sul supporto, che sia un foglio di un giornale o una serranda.
«La questione della disuguaglianza dell’abitare è una problematica che mi porto appresso da sempre, e fare una mostra in questa residenza “sopravvissuta” della Paulista è concettualmente molto importante per il mio percorso – mi spiega – specialmente perché spesso incontro difficoltà nel comunicare il mio lavoro, proprio perché racconta senza filtri una condizione che nessuno vuole vedere, una delle tante contraddizioni che si pensa di poter cancellare evitandone il pensiero». La Segregazione Sociale dovuta ad una questione “geografica”, insomma, non è un tema che piace alle persone che “consumano” arte.
E la pittura di R.Trompaz, invece, grida: i segni netti, ammassati, quasi a non lasciare respiro allo sguardo, prendono referenza dai codici dei pichadores, ovvero i writers indipendenti della città, coloro che “taggano” le facciate di grattacieli sfitti, e non solo, arrampicandosi e sporgendosi ad altezze vertiginose, consapevoli di poter perdere la pelle in pochi secondi ma trascinati dalla volontà di lanciare il proprio messaggio, urlando al mondo che è esattamente per questa disuguaglianza sociale che si rischia la vita. «Rispetto molto queste figure, che vogliono dimostrare la loro esistenza, in una urgenza totale», mi racconta R.
E come quello dei pichadores anche il suo è un linguaggio rapido: «l’unico grande riferimento alle arti visive è a Keith Haring, un po’ per il suo messaggio politico e un po’ perché dipingeva – almeno all’inizio della sua carriera – con due sole tinte, il bianco e il nero, un po’ come me, che lavoro con risorse molto scarse. Mi sento vicino anche a Vitor Arruda, che da anni colpisce sui temi LGBT+, ben prima che diventassero una bandiera».
Di bandiere, Trompaz, sembra non vestirne proprio, smentendo la propria immagine cool che colpisce anche attraverso il suo profilo mediato dai social network, ritornando immediatamente a San Paolo e alla vita nelle sue strade, nei tunnel della metropolitana, dei treni, e nelle lunghissime camminate che accompagnano il quotidiano dell’artista, “termometro sociale” che ha ben registrati nella memoria anche gli atti di resistenza della metropoli nel difendere i suoi angoli di natura, come successe pochi anni fa nei confronti del grande Parque Augusta, salvatosi per poco dall’essere raso al suolo e urbanizzato.
«L’architettura mi ispira, a San Paolo è mutevole: in base alle condizioni meteorologiche la città cambia completamente il suo volto – afferma l’artista, che arriva così all’altra accezione della parola “tempo”, ovvero quella possibilità di disporre dei propri minuti, ore, giornate, in base al proprio substrato sociale: «chi non può investire solamente nella propria formazione e nel proprio lavoro ha la necessità di fare altre professioni e la pressione ovviamente aumenta, specialmente in un centro gigantesco dove la competizione è alle stelle, dove il mercato non perdona, e dove le apparenze ingannano», spiega Trompaz.
Chi non si lascia ingannare, invece, sono le persone della periferia che riescono a identificare i molti elementi che appartengono all’universo delle comunità, come avvenuto in una recente mostra di libri d’artista alla Galeria Lona, giovane spazio di Barra Funda, dove un volume di SSGE è stato letteralmente “tradotto” da un gruppo di homeless.
La pittura di R.Trompaz, così, ci chiede di imparare a comprendere un linguaggio che non è sempre aperto, ma può essere riconoscibile aguzzando i sensi e uscendo dalla zona di conforto della “pittura comune”, avvicinandosi ad un’altra forma di pensiero che a volte – secondo l’artista – ha maggiori connessioni con la musica.
«Tra i gruppi che da sempre hanno alimentato la mia ispirazione ci sono i Racionais MC’s: al contrario dell’arte visiva, spesso molto elitaria, la musica fa riflettere, permette di approssimarsi a concetti che in periferia sono difficili da immaginare. Anche i podcast aiutano chi vive in condizioni più svantaggiate, specialmente perché non tutte le persone si sentono a proprio agio ad arrivare nel centro della città e ad affrontare determinate relazioni di potere, come entrare in qualche respingentissima galleria d’arte, nonostante il sistema si travesta con le forme dell’accoglienza».
Una lezione importante, che non tutti sono pronti ad accettare. Per ora, lasciata la Casa das Rosas, la prossima tappa di R.Trompaz è alla Triennale di Tijuana, in Messico, nel 2024.