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Progetto (s)cultura XXV: Alberto Criscione, “vita allo stato puro”

Alberto Criscione
Per Alberto Criscione la manipolazione dell’argilla è “vita allo stato puro”. Ne abbiamo parlato in questa venticinquesima puntata di progetto (s)cultura.

Cos’è per te la scultura? Quando e come hai iniziato a frequentarla?
È un modo per esteriorizzare ciò che si cela nelle profondità del mio mondo. In quel luogo si trovano percezioni legate all’essenza della vita, interrogativi sull’esistenza, disagi sociali, visioni varie ed eventuali. Questo percorso è iniziato nella bottega di mio padre, un maestro figurinaio. Potrei dirti che ho ricevuto il primo pezzo d’argilla quando ero ancora in fasce. Ma a lavorare seriamente ho iniziato in adolescenza, sulla scia dei maestri calatini.

L’imprinting paterno condiziona in tanti sensi. A volte, come nel tuo caso, è una spinta a ricercare.
Da mio padre ho tratto tanto. In passato il bagaglio che mi portavo dietro era molto pesante, ma non tutto ciò che c’era dentro mi apparteneva. Nel tempo ho fatto un cambio d’abito, inserendo quello che mi interessava davvero, come la ricerca nel campo della scultura ceramica. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, questo desiderio non è un’eredità paterna. Mio padre amava molto la sua zona di comfort, dedicata alla narrazione della civiltà contadina; il mio approccio, al contrario, è sempre stato più tecnico, più sperimentale.

Deep Impact, work in progress

Molti dei tuoi viaggi li hai compiuti nel tempo, interrogando la scultura classica e i suoi miti fin troppo contemporanei…
Visto che ultimamente non viaggio tanto spesso sul piano fisico, quantomeno faccio dei viaggi mentali, che mi danno molta soddisfazione. La ricerca delle origini della nostra cultura è una cosa che mi affascina molto, penso che in un’altra vita avrei fatto l’archeologo. Ma non è solo questo che mi ha spinto a studiare i miti: è una questione più junghiana. Credo che le nostre passioni siano sovrapponibili a quelle di un qualunque eroe dell’Iliade. L’umanità non è cambiata di molto negli ultimi tremila anni e ancora fatica a trovare antidoti al veleno che la corrode dall’interno. Cerco di affrontare tutto questo con ironia, prendendo accuratamente le distanze dal mio sé saturnino.

Ciò che è rotto non può esser riparato. La tua ricerca è una presa di coscienza dell’ineluttabilità, e fragilità, dell’esistenza.
Lavorando con un materiale alchemico come la ceramica, dove i processi di trasformazione sono alla base, ho imparato che non tutti i risultati sono controllabili. Anzi, bisogna lasciare un margine agli imprevisti che il fuoco genera in cottura. Con il tempo inizi ad accettare le esplosioni in forno e le rotture come parte del percorso. È quasi una pratica Zen, perché l’interazione con la natura insegna a rispettare ciò che ti arriva come un dono prezioso, a trovare la bellezza anche in ciò che è, apparentemente, imperfetto.

La tua ultima serie è dedicata ai Nuovi Golem. Chi sono? Cosa intendono narrarci?
Facciamo un passo indietro: creai i primi Golem nel 2008, sull’impulso di una serie di disegni intuitivi che avevo fatto durante lunghe chiacchierate telefoniche. Vennero fuori dei personaggi goffi, surreali, grotteschi. Somigliavano alle illustrazioni colorate dei fumetti della mia adolescenza. Illustrazioni che mi tornano in mente quando avverto il bisogno di prendere un po’ in giro questa umanità che si prende troppo sul serio.

Imparare a nuotare 2.0, particolare

Freud diceva che molto che passa per intelligenza è in realtà immaginazione. Ti senti più intelligente o fantasioso?
La mia insegnante di italiano delle medie direbbe “furbo”. Non nel senso della scaltrezza che porta alla prevaricazione, ma di quella che ti consente di ottenere il massimo risultato con il minimo sforzo. Quando raggiungo questo obiettivo, mi ritengo pienamente realizzato.

Parliamo un poco del processo. Come nasce la tua scultura dall’idea, al primo abbozzo, alla realizzazione finale?
Ho ricevuto una specie di dono dalla vita, non so dire se per fortuna o sfortuna, ed è questo: quando chiudo gli occhi, vedo delle immagini che apparentemente non hanno alcuna connessione tra di loro. Le cose più strabilianti le ho viste ad occhi chiusi. E le ho fissate, anzitutto, su un foglio di carta. Dopo averle disegnate me ne dimentico, lascio che questo tesoro sedimenti, a volte anche per mesi. Poi, sfogliando il taccuino, le riscopro. Se anche a distanza di tempo rimango colpito, le metto in cantiere e cerco di immaginarle in proiezione ortogonale. Quanto al primo abbozzo, il lavoro sull’argilla per me deve essere fresco, dinamico (non lavoro quasi mai seduto, al contrario di come facevo in bottega con mio padre); i colpi di stecca devono essere ben visibili, come anche le impronte e gli arricciamenti casuali della materia. Dopo questa fase c’è la lunga attesa dell’essiccazione, dove ci vuole una grande attenzione, perché il pezzo deve asciugare in maniera lineare, senza fessurazioni dovute a sbalzi di temperatura o deformità di alcun tipo. Infine affido il pezzo al calore del forno (il mio è un forno a gas auto-costruito, che raggiunge i 1200°). Questa è la parte più rischiosa, occorre prudenza nel far salire lentamente la temperatura per evitare esplosioni. A seconda del progetto che ho messo in cantiere, il pezzo potrebbe richiedere una seconda cottura per gli smalti, oppure una colorazione a freddo… Questa, però, è una decisione che avviene in corso d’opera.

In principio fu l’argilla: qual è il tuo rapporto con questo affascinante materiale?
L’argilla è un sedimento roccioso la cui composizione è condizionata dalla conformazione geologica del luogo in cui si estrae. I minerali che contiene ne determinano colore e consistenza, ma nonostante ciò essa si può modificare attraverso silice o altri minerali. Come avrai capito potrei stare a parlarne per ore, ma lo risparmio a te e ai lettori. A livello di sensazioni invece, ciò che si prova nel dare forma ad un’opera utilizzando l’argilla è indescrivibile e ne ho avuto la conferma da tutti coloro che l’hanno manipolata nei miei laboratori. È come un magnete, non si può fare a meno di tenerla tra le mani… tanto è l’impulso istintivo, forse primordiale che suscita in chiunque. Per me è vita allo stato puro.

Affianchi, al lavoro di scultore, un’intensa attività divulgativa, condotta attraverso il tuo sito e il tuo canale YouTube. Con quali riscontri?
Da quando ho sposato Angela, per molti noi siamo “Alberto Angela”: la divulgazione è entrata dentro di me. Scherzi a parte, questo mio desiderio di condividere le conoscenze acquisite in ambito scultoreo è nato una ventina di anni fa: non accettavo che solo pochi eletti potessero ricevere dei talenti e altri no. Da lì ho maturato l’idea che apprendere le discipline artistiche fosse come imparare a leggere e a scrivere. Nelle mie ricerche sulla creatività, ho scoperto che le cose stanno esattamente così: possiamo essere tutto ciò che vogliamo. Questo principio è stato recepito da chi segue i miei canali. In tanti mi scrivono messaggi commoventi, raccontandomi di come si sono appassionati all’arte pur non avendo mai messo le mani in pasta prima d’aver visto un mio video. Come non esserne felice?

Icaro – la scelta (foto Raffaele Rinaldi)

In Italia il dibattito critico, ha scritto Gian Maria Tosatti, negli ultimi anni si è quasi azzerato. Sei d’accordo?
Credo che ogni affermazione sia condizionata dal punto di vista di chi la esprime. Nessuno è in grado di avere una visione d’insieme sullo stato dell’arte. Quello dell’arte è un mondo estremamente variegato, dominato da logiche sfuggenti, erratiche, confuse. Per quel che ne so, di arte se ne parla eccome, spesso utilizzando un linguaggio incomprensibile ai non specialisti. Questo atteggiamento elitario di pochi fa sì che il grande pubblico si allontani dall’arte. Il vero problema di tanta arte contemporanea è proprio l’elevarsi, con la complicità della critica, su un piedistallo narcisistico. Un tale atteggiamento va sovente a discapito di chi fa ricerca nel segreto, disinteressandosi del successo. È vero, viviamo in un mondo di immagini e parole, ma l’arte vera non si spiega: va vissuta, assaporata, non per forza capita. Essa dovrebbe ancora contenere una dimensione spirituale, dare dei pugni allo stomaco, aiutarci a cambiare rotta quando siamo troppo vicini al baratro. Ma forse sto farneticando. In fondo la visione di Gian Maria Tosatti che, lavorando su un’identità italiana che possa avere un rilievo internazionale, suggerisce antidoti al disgregamento sociale, non è meno utopistica di quella che professo.

E la scultura italiana, è viva o morta?
La scultura come entità non può morire, forse morirà quando non ci sarà più nessuno a ricordare come si faceva. È un po’ vero che in Italia viviamo ancora dei fasti del Rinascimento, ma nonostante ciò ci sono state e ci sono grandi scuole di scultura. Penso agli artisti della mia generazione che hanno avuto il privilegio di imparare il mestiere da scultori professionisti. Ad esempio, all’Accademia di Belle Arti di Palermo abbiamo avuto grandi maestri – uno su tutti Salvatore Rizzuti – che hanno trasmesso conoscenze tecniche antiche, fondamentali per intraprendere questo percorso. La scultura è un mestiere difficile. Penso si possa paragonare, a livello di fatica, al lavoro dell’operaio edile. Perciò non sono in tanti ad intraprendere questa via. Comunque, quello che vedo in giro mi piace, noto che c’è voglia di fare e tanta qualità. C’è solo un però… Amici che insegnano nelle accademie mi raccontano di come gli studenti non abbiano la possibilità di far pratica in aula per motivi strutturali o perché il direttore ha deciso di investire principalmente sulla progettazione 3D. Credo sia lecito domandarsi se avremo studenti che, una volta completato il loro percorso formativo, sappiano quantomeno fare la “O” col bicchiere.

Playground Martyr

Un tuo pregio e un tuo difetto, nell’arte e nella vita.
Mia moglie potrebbe darti una lista molto esaustiva (ovviamente più dei difetti che dei pregi). Mi limiterò a dirti che sicuramente l’orgoglio in entrambe le accezioni del termine è ciò che mi contraddistingue. A volte può essere uno spirito di conservazione positivo, altre volte un forte limite alla crescita personale.

Risiedi e lavori nei pressi di Palermo. Quanto la città influisce sulla tua produzione? Preferisci girare di luogo in luogo o lavorare sempre nel medesimo posto?
Nonostante abbia fatto qualche giretto per il mondo, non mi piace lasciarmi influenzare da meridiani e paralleli. Il posto ideale per me deve avere luce e silenzio o al massimo suoni della natura. Palermo è una città che tende a trascinarti dentro i suoi meandri rumorosi, cerca di farti diventare come vuole lei, ma io voglio conservare ancora un po’ di integrità. Perciò risiedo, al tempo stesso, vicino e lontano rispetto alla città: vicino quanto basta per non perderla di vista, lontano quanto basta per non farmi risucchiare.

Il filo di Arianna (foto Raffaele Rinaldi)

Non sei più giovanissimo, ma neppure centenario. Che cosa significa per un artista come te produrre, investire, costruire in un paese come il nostro?
Lo so che verrà un giorno in cui non centrerò più il buco del W.C., ma non è ancora giunta l’ora. Riconosco che ogni essere umano attraversa dei momenti… Io adesso mi ritrovo nella fase di consolidamento delle competenze acquisite e di costruzione della mia nicchia di mercato. Quanto a energia mi sento ancora un adolescente, a Palermo si dice che “acchianu i mura lisci” [mi arrampico sulle pareti senza appigli, N.d.R.], e questo mi permette di perseverare, nonostante le difficoltà del vivere in Sicilia.

A cosa ti stai dedicando, a cosa ti dedicherai?
Attualmente continuo il mio impegno con le gallerie Raffaello e Almareni di Palermo, con cui collaboro da diversi anni. Con quest’ultima ho in programma una personale in un futuro prossimo. Devo solo avere il tempo di mettere insieme i pezzi. In questo momento non è semplice dedicarmi unicamente alla realizzazione di 10/20 opere per una mostra: l’insegnamento nei workshop o in laboratori scolastici mi impegna parecchio, ed è una dimensione cui non voglio rinunciare. Un’altra cosa importante per me è la sperimentazione su nuovi materiali, che sto portando avanti insieme a mia moglie Angela Di Blasi, con cui realizzo gioielli artistici. Il mio pallino è creare delle opere d’arte biodegradabili, che non lascino traccia del loro passaggio sulla terra. Ti farò sapere se ci riuscirò. Spero solo di riuscire a mostrartele prima che si decompongano.

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