Dep Art Gallery raccoglie 28 opere di Giuseppe Uncini che raccontano l’intero suo percorso artistico, passando in analisi le principali serie che hanno caratterizzato la sua produzione. A Milano, a cura di Demetrio Paparoni, dal 24 ottobre 2023 al 27 gennaio 2024.
La prospettiva storiografica ci induce a porre gli eventi uno in fila all’altro, spesso intessendo rapporti causali che ci illudono di poterli ordinare (e comprendere) attraverso un approccio deterministico. E come base, come approccio, è indubbiamente efficace. Ma per ricordarci che si tratta pur sempre di una semplificazione, in nostro soccorso arrivano delle sorta di cortocircuiti, che evidenziano la fluidità e la contaminazione che caratterizzata l’evoluzione artistica, quasi mai lineare e positivista. Così tra gli anni ’50 e ’60, mentre ovunque (ovunque per quanto riguarda l’arte occidentale, dunque Stati Uniti ed Europa) impazziva la pop art, colorata e iconica per definizione, in Italia vi era Giuseppe Uncini, che realizza opere in cemento e pietra, rinunciando a qualsiasi sorta di figurazione.
Del suo percorso artistico, segnato da scientificità e artigianalità, offre testimonianza Dep Art Gallery, che a Milano racconta l’intera sua parabola, passando in analisi le principali serie che ne hanno caratterizzato la produzione. La mostra, frutto di rinnovati studi sull’artista, è accompagnata da un catalogo curato da Antonio Addamiano, direttore della galleria, con testi del curatore Demetrio Paparoni. Un’ulteriore testimonianza – dopo la grande pubblicazione dedicata a Salvo, Sicilia e città – dell’impegno editoriale con cui Dep Art approfondisce le figure dei grandi artisti italiani del recente passato. Anche in questo caso, l’apparato critico rappresenta un varco per penetrare nelle dinamiche operative di Uncini, la cui evoluzione complessa necessita di una guida per essere compresa appieno.
Tutto inizia intorno alla fine degli anni ’50, quando Uncini inizia la sua prima serie organica di lavori, i Cementiarmati (1958-62). O forse ancora prima, quando durante la Seconda guerra mondiale si trasferisce da Fabriano a Cerreto d’Esi, dove il giovane Uncini rimane profondamente influenzato dalle abilità manuali e tecniche osservate nei mestieri locali. Dopo la guerra, trasferitosi a Roma, inizia a trasportare queste procedure su un piano artistico, dove infatti conserva l’interesse per materiali inusuali come terra, carbone e cemento. Ma soprattutto mantiene un approccio artigianale alle operazioni artistiche. Per esempio, il suo metodo prevedeva che l’opera muovesse da un disegno, inteso come elaborato messo a punto con rigore scientifico. «Anche se poi la costruzione che ne consegue è priva di funzionalità, non è soggetta ai vincoli di un fine ingegneristico», come scrive in catalogo Demetrio Paparoni. «Per quanto sia il processo costruttivo a legittimare la natura dell’opera, persiste inevitabilmente l’elemento compositivo, frutto della combinazione dei tondini con il cemento, già prevista negli studi preparatori».
Si tratta dunque di una questione di manualità ed estetica, di riflettere sulle qualità materiche delle componenti e poi assemblarle secondo gusto. Gusto mai definito, mai raggiunto, ma sempre espressione di una tensione che Uncini continuerà ad inseguire tramite tentativi e aggiustamenti. Tanto che anche gli stessi Cementiarmati – nati con l’obiettivo di «concretizzare e materializzare lo spazio e il segno – il segno come presenza, lo spazio come misura» – si configurano come variazioni minime su uno spartito di cemento e ferro, realizzate in una visione progressiva dell’opera. I materiali grezzi, ruvidi, vivi con cui questi lavori sono conformati stressano l’idea che essi siano presentazioni oggettive del processo costruttivo.
Una linea che Uncini manterrà anche nelle serie successive. Mattoni, che nasce negli anni 1969-72, richiamano muri, volte, colonne, archi e portali; mentre tra il 1972 e il 1978 realizza la serie Ombre, in cui imponenti presenze architettoniche dialogano e si confrontano con l’ombra dell’artista, anch’essa costruita e resa in un volume. Gli anni Ottanta sono dominati dalle Dimore, superfici che suggeriscono paesaggi architettonici: edifici, porte, finestre e soglie, con le proprie ombre. Le Architetture, infine, nascono solo dal 2004 in poi. Un percorso che Uncini ha voluto sempre rivendicare come unico e personale, connesso ma mai simile (almeno negli intenti) a qualsiasi altra espressione artistica. Per esempio, l’accostamento con il minimalismo è per lui erroneo, in quanto per gli americani esso è il punto di partenza, mentre per lui rappresenta «il punto di arrivo, che prevede un processo lungo e meditato verso la semplicità, che non esclude, nella logica progettuale strettamente legata al processo operativo, possibilità fantastiche. Che non sono, certamente, significati letterali o simbolici».
«Laddove il rimando all’universo figurativo si manifesta, questo si deve al fatto che tendiamo a tradurre tutto ciò che vediamo in qualcosa che è riconducibile alla nostra esperienza», suggerisce ancora Demetrio Paparoni. Che poi, citando il critico Filiberto Menna, mette in evidenza come le opere di Uncini «assumono una marcata pregnanza iconica, che emerge davanti allo spettatore come presenze familiari, come “pareti”, “porte”, “finestre” di edifici, come “muri” sbrecciati da cui fuoriescono grovigli e spuntoni di ferro», prestandosi così a una «doppia lettura», in quanto l’opera «appare coinvolta in un processo di appropriazione e duplicazione del mondo».
Senza voler citare o avvicinarsi a niente di preciso, senza quindi rientrare in maniera netta nella traccia deterministica della storiografia, Uncini è riuscito a trovare una voce personale, in grado di però di risuonare anche in altre esperienze coeve e successive come l’informale, il minimalismo, l’arte concettuale e l’arte povera. É stato insomma un artista coerente e spontaneo, che nella sua lunga carriera ha mantenuto una linea individuale e chiara, unica ma sensibile ad evoluzioni.