Incontro con Joaquim Paiva, ex-diplomatico, fotografo, scrittore e maggior collezionista di fotografia contemporanea in Brasile: un attraversamento tra la poesia delle sue immagini, passando per due mostre super carioca attualmente in corso nella “città meravigliosa”
Nella casa/studio di Joaquim Paiva, affacciata sull’insenatura di Botafogo con una vista spettacolare sul Pan di Zucchero, a Rio de Janeiro, in non molto tempo l’arte la riassumiamo nella maniera più semplice e drastica possibile: “si fa per non tagliarsi le vene”. Molto curiosa, penso tra me e me, questa questione dei polsi che in questa domenica pomeriggio si ripropone, dopo aver assistito, solo poche ore fa, a un intervento sonoro dove una campionatura riportava esattamente le parole di un uomo indeciso sul da farsi, in relazione alla propria esistenza.
Joaquim Paiva, salvandosi i polsi, ha scritto la storia del Brasile degli ultimi cinquant’anni attraverso la fotografia e contemporaneamente l’ha collezionata; dal 1998, inoltre, scrive diari molto particolari: ognuno è un’opera unica, un saggio per immagini, un abisso di impressioni, appunti, ricordi.
Le prime fotografie comprate, negli anni ’70 a Caracas – in Venezuela – sono di una certa Diane Arbus, e già questo nome associato a uno dei Paesi attualmente più sofferenti dell’America Latina, la dice lunga su quanto l’anarchia del potere, per dirla con Pasolini, possa mutare i destini collettivi dei popoli.
Paiva le vicissitudini, gli sguardi, le tensioni umane, le ha immortalate senza interruzioni oltre che in Brasile anche in Canada, Perù, Argentina, Portogallo, Spagna, oltre che in Venezuela appunto, seguendo la sua professione ufficiale di diplomatico e uscendo dai palazzi all’ora del tramonto – la sua preferita per scattare – mi racconta, infilando una dopo l’altra splendide serie nella migliore estetica della street photography, con un tono squisitamente brasiliano.
Perché Paiva, per esempio, si trova a Brasilia negli anni ’70, quando la nuova Capitale del Paese – con pochi anni di vita – non solo accoglieva migliaia di immigrati in cerca di una vita migliore o semplicemente di lavoro, ma ospitava il famoso Núcleo Bandeirante, area dalle colorate dimore in legno, abitazioni delle famiglie dei braccianti che la città l’avevano di fatto costruita, e che divenne il primo progetto fotografico dell’artista.
Nella decade seguente, di nuovo nella Capitale brasiliana, fu la stazione degli autobus il vasto teatro che servì a Paiva per ritrarre l’immenso volto del popolo fatto di venditori di fiori e bandiere, lustrascarpe, baristi, ragazzi affaccendati nel consumare una pausa-pranzo fugace a fare da spartiacque tra le decine di ore di chilometri già percorsi e i successivi: era la vita reale, consumata a poche centinaia di metri dalle nuove architetture del potere nazionale disegnate da Oscar Niemayer. Nacque così Rodoviária de Brasília 1981-1984, pubblicata in forma completa da LpPress nel 2021, nel foto-libro omonimo.
Negli stessi anni, in diverse occasioni, Joaquim Paiva visita anche la Vale do Amanhecer, comunità religiosa a 50 chilometri da Brasília fondata dalla ex-camionista Neiva Chaves Zelaya mischiando cristianesimo e spiritismo, dottrine Inca e dell’Antico Egitto, creando un sincretismo di non facile identificazione che il fotografo ritratta con naturalezza e rispetto, in bianco e nero e a colori, in una modalità assolutamente discreta, soggetto quasi impercepibile nella vita quotidiana della comunità.
Contemporaneamente a tutta l’attività artistica personale, però, vi è anche la vita del collezionista, che porta la raccolta di Paiva ad essere la maggiore di tutto il Paese, finché nel 2006 il Museo di Arte Moderna di Rio de Janeiro riceve da Joaquim uno dei maggiori regali della propria storia, ovvero un comodato d’uso di oltre 2500 immagini: «Avrei potuto vendere tutto, cercare di speculare e guadagnare, ma preferisco sapere che per qualche anno la mia memoria sarà custodita in un museo, sperando che non vi siano incendi o invasioni aliene», mi racconta Paiva mentre, da una stanza all’altra, passiamo in rassegna i cataloghi e le proprie fotografie insieme ai pezzi della raccolta rimasti qui…e con loro sfilano i ricordi, le relazioni, gli incontri, le amicizie, il caso, gli sguardi che hanno portato Joaquim a comporre questa immensa costellazione in cui le linee di demarcazione tra serie terminate e nuovi progetti, così come tra la propria produzione e la collezione, si fa sottilissima e a volte invisibile.
Ma c’è dell’altro, perché oltre alle immagini Paiva usa le parole, e le lingue; sua è la prima traduzione dall’inglese al portoghese di Sulla Fotografia (On photography) di Susan Sontag del 1977: Joaquim dà alle stampe la sua versione nel 1981, per conto della casa editrice Arbor, aprendo così le porte della conoscenza dei “sacri testi” a diverse generazioni di fotografi e appassionati di immagini in Brasile.
Nel 1989, poi, è la volta di un libro dedicato alle parole di numerosi colleghi che si raccontano in Olhares refletidos: dialogos com 25 fotógrafos brasileiros, libro di interviste “tematiche” che a loro volta aprono al pubblico la possibilità di conoscere le personalità dell’obiettivo brasiliane, da Evandro Teixeira a Sebastião Salgado, da Rogério Reis a Walter Firmo.
A proposito di Rogério Reis, il fotografo è in mostra al Paço Imperial con la personale “O que se passa” (Cosa sta succedendo), una raccolta dei “pellegrinaggi” di Reis tra le spiagge della zona sud di Rio, una specie di delirium ambulatorium – per usare un’espressione che piaceva molto a Hélio Oiticica – che ha reso Ipanema e Copacabana i luoghi di una sorta di “residenza artistica” permanente del fotografo, come scrive la curatrice Paula Terra-Neale. Iniziate durante la pandemia, ritraendo corpi di ogni tipo nei momenti di gioco e libertà, ma anche oggetti e simboli ricorrenti dell’universo balneare carioca, le serie Travessias, Aerocães e Noite Americana ci raccontano dettagli poetici e a volte addirittura silenziosi della “cidade maravilhosa”, pieno contrappunto rispetto alle consunte immagini che da decenni affollano l’immaginario turistico di Rio. Gli scatti di Reis compiono – esattamente per la semplicità dei soggetti – il miracolo della cristallizzazione dell’attimo, quell’indicibile momento realmente ordinario che si fa straordinario in pellicola, e che si mostra inaspettatamente nel mezzo della travessia, il viaggio, seguendo le parole dello scrittore Guimarães Rosa.
Tornando nello studio di Joaquim Paiva, un altro capitolo della sua carriera di collezionista e di profondo conoscitore dello stato dell’arte fotografica carioca passa dalla frequentazione con Alair Gomes. Ingegnere, nato nel 1921, il suo avvicinamento alla fotografia avviene alla metà degli anni ’60, durante un viaggio in Europa. Da allora, Gomes, inizia una intensa attività ritrattistica e di fotografia di strada con lo sguardo focalizzato specialmente a ragazzi anonimi incontrati per le strade di Rio. Gomes, però, divenne famoso per aver ritratto le scene di abbordaggio omosessuali della spiaggia di Ipanema attraverso centinaia di scatti in bianco e nero ottenuti di nascosto, “spiando” la vita con la sua macchina fotografica dalla finestra dell’appartamento in Rua Prudente de Moraes: una serie, intitolata Sonatinas, che ha finito per identificare Gomes come “precursore” dell’arte omoerotica in Brasile. Joaquim Paiva, con lui, aveva conversato a lungo, realizzando anche una vera e propria deposizione poetica sottoforma di intervista, nel 1983 – anticipando di un anno la sua prima mostra personale alla Galeria Cândido Mendes, a Rio – utilizzata in seguito anche da Fondation Cartier in occasione della mostra che l’istituzione dedicò al fotografo nel 2001, a Parigi.
Ancora nella casa/studio di Flamengo, quello che cattura l’attenzione della restante, vastissima, produzione di Joaquim Paiva, sono i suoi diari: centinaia, sparsi su piccoli tavoli, esposti in librerie, aperti o chiusi, a rimarcare precisione e passione per l’archivio. Poi, d’incanto, una scaffalatura si apre ed esce 128 diários – o tempo é alfinete, una collezione di pagine selezionate in un gigantesco libro d’artista tirato in pochissimi esemplari dei quali uno è stato anche donato alla Biblioteca Nazionale, nel 2018: citazioni di Henry Miller, Rosa, Hermann Melville escono da pagine nelle quali i tormenti, le gioie e gli accadimenti quotidiani prendono la piega della poesia, dell’esergo. E delle immagini: «Lavorare a questi quaderni mi dà un piacere immenso, il piacere della cura e del dettaglio. E sempre di più la scrittura sta lasciando spazio alle fotografie: stanno diventando veri e propri diari visuali. Sai, l’età ti permette di divertirti e una libertà sempre maggiore», mi racconta Joaquim che – nel frattempo – aprendo qui e là una finestra, lascia Rio de Janeiro entrare e attraversare lo spazio: l’aria umida della sera, il traffico, il riflesso delle luci di Urca sull’acqua della rada.
E così, al lato dei diari, ritorna la collezione e l’archivio donato al MAM, i nomi che si rincorrono internazionali – da Vivian Maier a Anselm Adams alla Arbus – e, soprattutto, le personalità che hanno donato un volto al Brasile attraverso il loro obiettivo: Eustáquio Neves, Elza Lima e Miguel Rio Branco, Mariano Klatau Filho e Kitty Paranaguá, che alla celeberrima spiaggia di Copacabana, alla sua luce e alla sua presenza ha dedicato anni di lavoro, e che oggi è in mostra con Paulo Marcos de Mendoça Lima al SESC di Ramos, in un progetto a due intitolato “Há. Ma. Terra, Mar e Ar”. Ancora una volta in scena c’è Rio, ma anche Bahia, con le acque di un mare che – nonostante la “gabbia” delle immagini – mostra la sua immensità e la sua potenza, associato all’oceano verde della Foresta di Tijuca: presenze mistiche e fondanti nella storia della città, trasformandosi in corpi che contornano altri corpi ciclopici che gli scatti di Paranaguá e Mendoça Lima omaggiano, rendendoli allo stesso tempo poetici come vento, e leggeri come il tessuto su cui queste immagini virate in verde e blu sono stampate. Così la foresta, il mare, l’acqua, diventano quasi dei pensieri astratti: è la capacità della fotografia di diventare traccia del respiro del mondo, e di invertire le prospettive, proprio come Paiva ha insegnato con il suo lavoro e la sua collezione. E noi, qui, ci congediamo…