Una mostra, fruibile fino al 31 gennaio 2024 a Palazzo Barberini, testimonia la trasformazione dell’idea di paesaggio, da raffigurazione del luogo a trasfigurazione preromantica
Lungi dal rappresentare l’infanzia del pensiero iconografico, tra le più suggestive forme di relazione dell’uomo-artista con l’ambiente circostante, stanno magia ed immaginazione. Sempre validi strumenti che consentono da secoli all’Arte di vagliare la Natura nella sua inesauribile varietà. Di aumentarla, di modificarla e di abitarla, tra mito e vita quotidiana. Questo è ciò che racconta la mostra dossier “Di natura e d’invenzione. Paesaggi, Vedute e Capricci dai depositi delle Gallerie Nazionali di Arte Antica” a Palazzo Barberini, con opere provenienti in parte anche dal Museo Laboratorio delle Gallerie. Raccolta nella neobarocca Sala dei Paesaggi, al piano nobile – un tempo luogo di banchetti privati – la rassegna, a cura del direttore ad interim Luigi Gallo, con Paola Nicita e Yuri Primarosa, conta quattordici dipinti, realizzati tra il XVII e il XVIII secolo, da autori italiani e stranieri.
Si va da Nicolas Poussin, padre della pittura francese del Seicento, al Maestro della Betulla, Gaspard Dughet, sino al mito e alla sacralità del pennello fiammingo di Jan Frans van Bloemen, detto l’Orizzonte. Le vedute esatte di Pietro da Cortona si alternano all’illuminismo analitico di Jacob Philipp Hackert. Alle scene pastorali e alle stravaganze architettoniche di Andrea Locatelli e Giovanni Paolo Panini si affiancano le sensibilità di Francois Boucher, Jean-Honoré Fragonard e Hubert Robert.
I più noti pittori della corte di Versailles, che a Roma soggiornarono come pensionnaires all’Accademia di Francia. “Il Museo deve continuare a vivere. Ci sono circa dieci milioni di opere nei depositi, occorre valorizzarle”, ha commentato Luigi Gallo, studioso del paesaggio francese del ‘700 e Direttore della Galleria Nazionale delle Marche a Urbino. Città nella quale è inaugurata di recente una mostra con opere tutte provenienti dai depositi. “In un periodo di vacatio tra due direttori di Palazzo Barberini, ci piaceva mostrare quanto questo Museo abbia da dire”.
I diversi tipi di paesaggio
Entro ricchissime cornici barocche, agli occhi del fruitore si dispiegano paesaggi differenti: composizioni ideali, evocazioni campestri, capricci con rovine antiche. “I pittori venuti a Roma per riprendere dal vero guardavano anche ruderi e vestigia, che sono po’ il punto d’incontro tra uomo e natura. Vediamo bizzarrie come l’assoluta atemporalità delle architetture in decadenza accanto all’affaccendarsi della vita quotidiana. Si tratta di ideazioni preromantiche”, ha commentato Paola Nicita.
Di particolare rilievo la “Veduta di Villa Sacchetti a Castelfusano” (1632-1639). Uno dei quattro “paesaggi ovati”, dipinto da Pietro da Cortona, tra i primi quadri da camera nei quali figura il Castello. Una visione traslucida che tradisce tuttavia un’interpretazione soggettiva. Laddove l’olio su tela di Jacob Philipp Hackert testimonia l’esatta prospettiva dalla quale egli dipinse: l’Osteria del Fico, ancora oggi esistente, a Grottaferrata.
Ma l’opera che più di ogni altra manifesta un’intrinseca singolarità e si fa indice del fatto che ciascuno degli artisti in mostra fu “autenticamente romano” anche se non di nascita, è “L’imbarcadero (veduta immaginaria del Pantheon)”, 1782 di Hubert Robert. Una rielaborazione teatrale e fantastica che connette l’antico porto di Ripetta, il Pantheon e il Campidoglio. Con questo travolgente assemblage di monumenti, il pittore torna a rappresentare l’architettura parlante di un quadro esposto al Salon del 1767.
La primavera in pieno inverno
Iuri Primarosa, che nelle parole di Luigi Gallo “ha mostrato di saper portare in pieno inverno la primavera eterna che si sviluppa nei luoghi dell’Arte”, ha fornito poi un’ulteriore chiave di lettura. “Le quattordici opere, provengono dai depositi, ma non si tratta di lavori marginali: meriterebbero un posto d’eccezione all’ interno di qualsiasi museo ed è bello che tornino a girare in questo ingranaggio espositivo. Minimo comune denominatore è il paesaggio di Roma e del Lazio anche se non sempre è riconoscibile. Vi sono reinterpretazioni, anzitutto perché nel Seicento la Natura era un fatto culturale. Roma e dintorni erano visti come luoghi dell’immaginazione e del Genius Loci. Luoghi dove erano vissuti gli dei, dove vissero alcuni degli apostoli e dove nacque la Chiesa secolare”.
È così che i paesaggi vengono idealizzati, perfezionati, potenziati tanto da non riuscire sempre immediatamente riconoscibili. L’immaginazione portò con sé, a cavallo tra quei due secoli, un’acuta percezione degli eventi naturali e storici insieme, generando un’idea di Natura interstiziale, sottesa ad un ora arcadico, ora illuministico, ora fantastico rapporto con il luogo del cuore.