A Roma la prima grande rassegna italiana del celebre fotografo Philippe Halsman, amico di Albert Einstein e Salvator Dalì
Nel corso del Novecento è vissuto un fotografo che, nell’arco della sua esistenza, ha saputo conciliare l’intento analitico con quello narrativo ed estetico, attraverso il filtro di una ludica e poetica levità. Si tratta di Philippe Halsman (Riga, 1906 – New York, 1979), di cui il Museo di Roma in Trastevere offre la prima grande retrospettiva italiana. Curata da Alessandra Mauro e fruibile fino al 28 gennaio 2024. La rassegna Philippe Halsman. Lampo di genio segue l’iter del suo successo con una carrellata di oltre cento foto tra colore e bianco e nero.
Si parte con gli anni Venti e Trenta nei quali egli acquisisce un nome a Parigi lavorando per le riviste “Vogue” e “Vu”. Ma quel che colpisce da subito è l’autoritratto d’apertura: Halsman posa la testa su un treppiede. Un gesto simbolico, a riflettere una personale folgorazione: “Ho sempre pensato che la parte più importante di un fotografo fosse la sua mente […] la testa del fotografo e non la macchina fotografica è lo strumento principale della sua professione” (1954). Negli anni Quaranta, sbarcato a New York grazie all’amicizia con Albert Einstein, di cui si può osservare uno stupendo ritratto – accompagnato dal gustoso racconto intessuto attorno a quello scatto – Halsman diviene ritrattista di punta.
Intima unicità
Dalle pareti lungo il percorso fanno capolino Dustin Hoffman e Mia Farrow, un divertito Louis Armstrong che suona la tromba e poi innumerevoli altri attori, attrici, una fantastica serie di foto al regista Alfred Hitchcocok per il film Uccelli. Nessuno è cristallizzato in una posa ingessata, ma colto nella propria intima unicità. Sono 101 le copertine firmate da Halsman per la rivista “Life”, di cui la mostra offre alcuni esemplari, insieme a provini, testimonianze d’epoca e filmati. Ma è negli anni Cinquanta, dopo il grande favore di pubblico già ottenuto, che il fotografo, spinto da una vocazione per la dinamica, mette a punto una vera e propria metodologia dello scatto: “jumpology”. Grazie al quale egli è riuscito letteralmente a far saltare davanti all’obiettivo celebrità, divi dello schermo, scienziati, capi di Stato.
Così vediamo, tra gli altri, il fisico Oppenheimer toccare il soffitto con un dito, Grace Kelly, Marylin Monroe, Audrey Hepburn librarsi in aria con un sorriso liberatorio. E addirittura i duchi di Windsor, Wallis Simpson e Edoardo VIII, catturati in un saltello, mano nella mano a New York, nel 1958. Per quanto non sia possibile negare una venatura pop di questo metodo, Halsam mira a sottolineare che si tratta anzitutto di un processo che punta a sostituire la realtà oggettiva catturata dalla fotografia con la proiezione di un’essenza vitale. Come Bragaglia già fece nell’ambito del movimento futurista guardando al fotodinamismo di Marey, Halsman cerca di mostrare in fotografia ciò che accade nello spazio-tempo. Di rendere visibile quella curvatura che a occhio nudo risulta impossibile da cogliere. Una verifica fotografica cui sottopone il movimento, che presto lo condurrà a sfociare nel surrealismo.
Esperimenti di spazializzazione
Straordinaria la serie di immagini che hanno al centro Salvator Dalì, di cui Halsman sarà amico per quarant’anni, fino alla fine. C’è un Dalì-Monnalisa, un Dalì-orologio, un Dalì-boccetta di profumo e così via. Quasi a destare il sospetto che Piero Fornasetti – proprio in quegli anni intento a realizzare la sua serie di incredibili piatti con le variazioni del volto di Lina Cavalieri – ne abbia tratto ispirazione. Stormi di gambe si agitano sott’acqua, una modella con indosso un abito scultoreo disegnato da Dalì, cammina sul tetto di un grattacielo di New York, un balletto si articola sulla riva del mare. Nell’occhio di Halsman sembra essersi addensato un vero e proprio connubio di mirabolanti esperimenti di spazializzazione, in cui il movimento diviene sublimazione della corporeità.
Negli anni Venti Ezra Pound, mentore del movimento vorticista, attraverso le sue sperimentazioni, aveva annunciato: “la macchina fotografica si è liberata della realtà”. Halsman forse non intendeva liberarsi dalla realtà, ma coglierne piuttosto la magia interstiziale. Colpisce la travolgente sovrabbondanza di vitalità per un genio, che prima di essere genio fu uomo e prima di essere uomo fu un ragazzo di vent’anni, ingiustamente accusato dell’omicidio di suo padre e per questo costretto a scontare due anni di carcere. Tuttavia perseveranza ed acume, ingegno ed estro sono ciò che lo hanno portato in alto. All’altezza di un fotografo che ha reso di colpo obsolete le formule fotografiche fino a quel momento utilizzate e ha regalato al mondo la sua irripetibile e immaginifica poetica dello scatto.