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La Biennale della Post-Decolonizzazione

Adriano Pedrosa Photo by Andrea Avezzù Courtesy of La Biennale di Venezia
Adriano Pedrosa, Photo by Andrea Avezzù, Courtesy of La Biennale di Venezia

Una riflessione di Marco Tonelli sulle scelte curatoriali appena presentate da Adriano Pedrosa per la Biennale Arte di Venezia 2024

A conti fatti, le ultime edizioni della Biennale di Venezia hanno collocato in primissimo piano, fin dalle dichiarazioni di poetica, outsider, alienati mentali e sciamani, donne e non-binari, indigeni e queer, emigranti e decolonizzati. In queste classificazioni la biografia degli artisti e delle artiste è sempre sembrata contare più dei lavori prodotti. Che il trend continui in questa direzione è difficile immaginarlo (le “minoranze” generiche che mancano all’appello non sono poi tantissime), tanto più che il presidente entrante, Pietrangelo Buttafuoco, potrebbe essere più sbilanciato di quello uscente (Roberto Cicutto) verso qualità estetiche e artistiche più autonome che sociologiche. O almeno lo speriamo.

Tra gli elementi distintivi sopra elencati, e stando a quanto dichiarato dal curatore brasiliano Adriano Pedrosa durante la presentazione dell’imminente Biennale Everywhere Strangers (Stranieri Ovunque), rimane solo un dubbio su cosa significhi oggi parlare di decolonizzazione, la cui definizione nel dizionario Treccani è la seguente: “fenomeno storico della dissoluzione dell’assetto coloniale imposto alla quasi totalità dell’Africa, e buona parte dell’Asia e a territori delle Americhe”. Il che storicamente si riferisce alla colonizzazione europea del Nord e Sud America, e poi in particolare a quella dell’Africa per non dire di quella in India e via dicendo.

50 anni

Il punto però è che queste colonizzazioni sono tutte finite, al più tardi, negli anni Settanta del XX secolo (probabile l’ultimo stato a diventare indipendente sia stato il Mozambico nel 1974), se si eccettua il Sud Africa soggetto ad Apartheid fino al 1991 (che però non era una forma di colonizzazione bensì di segregazione razziale all’interno di uno stato indipendente e libero già nel 1961). E senza dubbio Pedrosa non ha alluso alla colonizzazione culturale ed economica statunitense dell’Occidente (e dell’Italia in particolare) né a quella Sovietica dei paesi ex comunisti.

A meno che non si parli allora di decolonizzazione delle coscienze, del web, dei sogni, della vita ultraterrena, chi sarebbero allora gli artisti decolonizzati oggi? Verrebbe da rispondere (scorrendo il lungo elenco di invitati) sud americani, africani e asiatici, anche se la loro decolonizzazione, seppur non a effetto istantaneo, risale ad almeno 50 anni fa: non dovrebbe essere la Biennale una mostra, proprio per la sua cadenza temporale, di ultime se non ultimissime tendenze? A quali decolonizzazioni abbiamo assistito negli ultimi 2/4 anni? È forse una mostra sull’effetto della decolonizzazione 50 anni dopo?

Stranieri a casa propria

Viene il sospetto che sia proprio l’Italia (intesa in questo caso come sistema culturale e artistico) ad essere colonizzata. Lo dico pensando soprattutto a quanti artisti italiani contemporanei viventi (scorrendo i circa 320 nomi di artisti presenti) siano stati invitati a questa edizione: soltanto 3 (Giulia Andreani, Alessandra Ferrini e Agnes Questionmark), che sommati all’unico del Padiglione nazionale diventano 4 per tutta la Biennale di Venezia.

Certo, il titolo della mostra parla chiaro: Stranieri ovunque ed ovviamente gli artisti/e italiani in Italia non sarebbero stranieri/e, ergo non avrebbero i requisiti adatti. A meno di non esserlo nell’accezione “queer”, come nel caso di Questionmark (“punto interrogativo”). La presenza poi di artisti e di artiste viventi emigrati in Brasile come Maria Bonomi (89 anni), negli USA come Simone Forti (89 anni) o in Sud America come Paolo Gasparini (90 anni) e Umberto Giangrandi (81 anni) (che non possiamo dire ormai, visto l’anagrafe, artisti/e di tendenza ma storici), non cambia ovviamente le cose, anche perché presenti solo in quanti emigrati.

Il passaporto non significa niente ovviamente, però pone la questione della decolonizzazione come una falsa questione o almeno come un traguardo che il sistema artistico italiano deve ancora raggiungere: se non essere a casa propria altrove (a Kassel, a Münster, a Berlino, al Whitney di New York, a Sharjah o Istanbul), almeno non essere stranieri a casa propria.

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