Print Friendly and PDF

Marcel Duchamp amava fare il Duchamp

Marcel Duchamp
Photo: “Amarcort 2: Incontri, Ricordi, Euforie, Melanconie di Giancarlo Politi
14 Febbraio 2024″

Prosegue la rubrica di ricordi di Giancarlo Politi (fondatore della rivista “Flash Art”, critico militante ed editore) “Incontri, Ricordi, Euforie, Melanconie“. Dopo una pausa che aveva visto un stop significativo della newsletter che racconta il mondo dell’arte contemporanea, ecco il secondo appuntamento nella nuove veste, più snella, che ha cambiato il titolo da “Amarcord” ad “Amarcort”. In questo secondo episodio si racconta Marcel Duchamp 

Ho incontrato Marcel Duchamp (l’uomo più intelligente del XX secolo, secondo André Breton) nei primissimi anni ’60 a Roma e poi l’ho rivisto a Milano, in galleria da Arturo Schwarz, sempre in quegli anni e sempre con il medesimo spirito.

A Roma arrivava a bordo della Maserati (o Ferrari?) cabriolet di Gianfranco Baruchello che andava a prelevarlo all’aeroporto. Ricordo che arrivava sorridente e trionfante ma con aria sempre un po’ indifferente e sorniona con la sua immancabile pipa e scendeva come un principe dalla macchina scoperta di Baruchello in Piazza del Popolo per sedersi al bar Rosati o alla galleria La Tartaruga di Plinio De Martiis, proprio sopra Rosati, dove io, Schifano, Fabio Mauri, Tano Festa, Giosetta Fioroni e pochi altri andavamo a rendergli omaggio.

Ci guardava e sorrideva in modo ironico, con un certo distacco e sembrava prendersi gioco di noi. Avvertivamo tutti che recitava a fare il Marcel Duchamp, il professionista di scacchi, l’olimpionico francese della nazionale scacchistica.

Baruchello era un apprezzato artista ma un po’ emarginato perché molto benestante e il fatto che poteva permettersi una Ferrari era guardato con sospetto dagli altri artisti. Plinio De Martiis, il mitico gallerista, diceva: “Baruchello è un bravo artista ma è ricco e non potrà mai avere successo, solo i poveri artisti come Schifano possono aspirare alla Storia”. La stessa emarginazione subiva un po’ anche Fabio Mauri, bravo artista e splendido intellettuale e allora Presidente delle Messaggerie Italiane che però ha sempre tenuto un profilo basso anche se viveva in un appartamento da sogno a Piazza Navona e conduceva una intensa vita sociale: ma aveva l’attitudine e l’educazione della migliore borghesia milanese. E per mimetizzarsi insegnava a L’Aquila, e tutte le mattine si faceva in macchina, mi sembra con una Volkswagen, Roma-L’Aquila, lui, rampollo di una delle famiglie più benestanti e famose d’Italia. Infatti il riconoscimento di Fabio sta arrivando faticosamente ora, dopo la sua scomparsa. Ma soprattutto fuori dall’Italia. Però Fabio, con la sua bellissima compagna di allora Elisabetta Catalano era un protagonista discreto ma importante della Roma intellettuale e mondana, anche perché era amico fraterno di Pasolini e Moravia nonché Direttore dell’Almanacco Bompiani, allora un must della letteratura e anche dell’arte negli anni ’60.

Ma in quegli anni e ancora prima come dicevo, gli artisti ricchi erano demonizzati ed emarginati. Perché nel dopoguerra l’arte era ancora intesa come sofferenza e sacrificio e gli artisti meritavano attenzione solo se conducevano una vita da bohémien, connotata da stenti e digiuni e ubriacature perenni (penso a Emilio Vedova, Pietro Consagra, Nino Franchina, Giulio Turcato, con il suo fiasco di vino sempre sotto il tavolo, magrissimi per fame atavica). Ben diverso dai nostri tempi in cui gli artisti di successo a trent’anni sono già delle star idolatrate. Ma allora, a Roma, tutta la critica accademica, capeggiata dal valdese Giulio Carlo Argan, guardavano con disprezzo il mercato giudicandolo il Male Assoluto.

Ricordo che l’amico Giovanni Carandente mi diceva sorridendo e parafrasando un famoso detto di Goebbels: quando sento la parola mercato, metto mano alla pistola. Pensate dove era arrivato il massimalismo accademico romano.

Di Marcel Duchamp si può dire che faceva già in vita il Duchamp. Ironico, sarcastico, parlava poco ma si intuiva la sua intelligenza attraverso i silenzi e i sorrisi. Una volta, in galleria ci disse: “io non sono un artista, io sono uno scacchista che vive facendo il mercante d’arte e rappresento Brancusi”. E lui, un genio, si lasciava trasportare e guidare, apparentemente manipolare dagli altri, in Italia appunto da Baruchello e a Milano da Arturo Schwarz, uomo ostico ma lungimirante. Marcel Duchamp non possedeva sue opere: alcune, pochissime, erano nei musei, le altre realizzate e poi disperse. Il grande merito di Schwarz è stato quello di aver intuito, con Marcel accanto, di poter ricreare, grazie ad abili artigiani milanesi, molte opere del grande artista. E oggi, quasi tutte le opere, in realtà multipli, che si possono ammirare nei musei, sono state realizzate a Milano. Ma tutte autorizzate e firmate dall’artista.

Spesso mi viene da pensare a Marcel Duchamp e al suo senso della vita. Disinteressato al denaro, ironico e provocatore, giocatore ad altissimi livelli, si preoccupava solo di apparire un dandy. Un vero grande dandy teso a fare della vita la sua più grande opera d’arte.

Giancarlo Politi   
giancarlo@flashartonline.com

Commenta con Facebook