La Mucciaccia Gallery di Roma presenta la mostra di Cristiano Pintaldi tra pop art e sconfinamento nel virtuale e nel fantascientifico
Nel clima di uno sperimentalismo pittorico sui generis si inserisce la mostra “We are here. Do you stay in the Barbie world?” di Cristiano Pintaldi (Roma, 1970), visibile alla Mucciaccia Gallery di Roma fino al 20 aprile. Oltre venti le opere in rassegna, alcune delle quali realizzate ad hoc e tutte riassuntive delle ultime indagini dell’artista. La stesura dei pigmenti cromatici, allontanandosi dalle modalità della pittura tradizionale, strizza l’occhio alla fotografia e all’AI, senza tuttavia coinvolgerle direttamente, innescando un gioco di illusioni. Ciascun dipinto, se osservato a distanza, sembra ritrarre fedelmente alcuni scatti o fotogrammi desunti dal web, salvo poi scomporsi ad uno sguardo ravvicinato.
Pintaldi, infatti, a partire dal ’91, dipinge su fondo nero con l’aerografo, suddividendo la creazione dell’immagine in tre livelli, corrispondenti ai tre colori primari rosso, verde e blu (RGB). I soggetti – scelti tra idoli della cultura Pop, cartoon, film di Kubrick e visioni fantascientifiche – si sfaldano e ricompongono secondo piani di simmetria puntinati, alla stregua dei pixel televisivi. L’immagine guida, ispirata al recente film “Barbie”, da cui il titolo della mostra, invita a riflettere sulla vanitas degli stereotipi e degli ideali estetici proposti dal mondo digitale.
Valori fisici
Un messaggio che calza a pennello nel panorama un po’ stinto del post-concettuale, con la sua caratteristica di imporre ovunque un’esteticità diffusa, pagando un certo appiattimento in una s-definizione dell’arte, ove vige per lo più il trionfo dei mezzi informatici. In Pintaldi invece, benché il camp sia pericolosamente in agguato, sopravvive il recupero dei valori fisici e dell’intervento artistico di sapore manuale-artigianale. Molti i temi affrontati, tra i quali spicca prepotentemente quello della presenza aliena fra noi, un argomento particolarmente sentito dall’artista.
L’impalcatura della mostra corre sul balletto tra un’insinuata convinzione visiva e la sua smentita. Ciascuna opera sembra una stampa, ma non lo è, è tratta da un’immagine reale, ma viene rielaborata, la tecnica appare un lascito della Op Art e invece si presenta come filtro ambiguante. Tutto dice di un richiamo nuovo e un po’ evanescente a quella dicotomia tra realtà e finzione sociale, filosofica, esistenziale. Sulla quale già ben ragionava Pirandello nei lontani anni Venti del Novecento.