Una vittoria annunciata, che non premia la qualità del cinema. Il miglior film – assoluto, non solo internazionale – doveva andare a Glazer
– Hai un minuto?
– Per cosa?
– Una chiacchieratina sugli Oscar di ieri notte.
– Oh santo cielo, devo proprio? Nemmeno l’ho vista in tv, la Ceremony. Credo sia da quando si verificò la manfrina dello scambio delle buste e Warren Beatty annunciò “La La Land” mentre aveva vinto quel caffelatte annacquato di “Moonlight”. Era il 2017. Da quell’anno in poi, fare l’alba per assistere alla vittoria di scemenze irrilevanti come “La forma dell’acqua”, “Green Book”, “Parasite”, e l’assurdo trittico consecutivo di “Nomadland”, “Coda” e “Everything Everywhere All At Once”, anche no, dai.
– Ma lo sai chi ha vinto quest’anno, vero?
– Come potrei non saperlo? Era almeno da Natale che se ne aveva la certezza matematica. E al di là dell’effettiva sorpresa di Emma Stone, che l’ha spuntata su quella mummietta di Lily Gladstone, tutto è andato secondo le più ovvie e accreditate previsioni. L’Oscar è un premio che Hollywood si assegna da sola, e quello per il Miglior Film, il più atteso di tutti, finisce nelle mani dei producer il cui “prodotto” ha incassato un sacco di soldi, o si è distinto per qualità che con il cinema hanno pochissimo a che vedere, tipo i recenti fenomeni dell’inclusività e della correctness del MeToo. L’ultimo Oscar che mi ha trovato totalmente d’accordo con l’Academy fu nel 2008, quando vinsero i Coen con “Non è un paese per vecchi”. Dopo, forse solo “The Artist” e “Argo” mi hanno strappato un hurrah di contentezza. Si era nel ’12 e nel ’13. Ma lo stesso discorso vale anche per Palme, Leoni e Orsi: da molti anni in qua non concordo quasi mai sull’oro dei Festival. Magre soddisfazioni le regalano ormai soltanto gli argenti o i Premi Speciali delle Giurie.
– Però quest’anno è andata di lusso con il Miglior Film Straniero. O “Internazionale”, come ora impone il lessico.
– Senza dubbio. Ma anche in questo caso non c’è stata sorpresa. Per fortuna.
– Un pensiero al caro Garrone, che giustamente ci aveva sperato.
– Guarda, diciamola tutta: secondo i miei personali, personalissimi criteri di valutazione, ovvero quegli elementi che durante una visione cerco e scruto sullo schermo, e che io chiamo “cinema” – dunque NON, né MAI il “messaggio”, il “contenuto”, la “trama”, ovvero quello per cui sdilinquisce il “pubblico” che tuttavia è essenziale perché il cinema, che è un lusso costosissimo, continui a esistere e bisogna per forza che ci siano masse di spettatori disposti a pagare un biglietto per divertirsi – …
– Alt! Cos’è, allora, questo benedetto “cinema”, per te?
– Beh, il “modo” in cui trama, contenuto e messaggio vengono “guardati” dall’autore. Che è come dire, di un dipinto, la qualità del disegno, della composizione, della stesura del colore: è “lì” che sta la pittura, non nel soggetto del quadro.
– Forse ho capito. Vai avanti.
– Dicevo: secondo i miei criteri, il Miglior Film sarebbe dovuto andare a “The Zone of Interest” di Jonathan Glazer, che a parer mio segna un passo epocale nella storia del linguaggio cinematografico: il mostrare il controcampo dell’orrore, e solo quello, lasciando intuire nient’altro che acusticamente la tragedia della Shoah impone che d’ora in avanti chiunque voglia raccontare con il cinema lo sterminio degli ebrei non potrà prescinderne, così come Glazer ha spostato ancora più in là un’asticella già spinta ben oltre il limite del “visto mille volte”, da “Il figlio di Saul” di Laszlo Nemes e da “Austerlitz” di Sergej Loznitsa. Dell’uso delle telecamere a circuito chiuso sistemate all’interno della villetta familiare con giardino del Comandante nazista del Lager già hanno scritto e parlato tutti un po’ dovunque, ma pochi, secondo me, si sono soffermati a considerare il senso più riposto di un’operazione simile: una telecamera a circuito chiuso, fissa e non presidiata da nessun operatore, registra con uno sguardo inconsapevole qualcosa che nessuno sta davvero osservando in quel preciso momento: di chi è dunque l’occhio che spia gesti e parole della moglie, della servitù, dei figli del nazista? Di nessuno. Di nessuno che abbia almeno la coscienza di star guardando “l’inguardabile”. Mai nessuno (forse Haneke, ma solo di striscio) era arrivato, al cinema, ad evidenziare l’inguardabilità di qualcosa puntandole contro l’occhio casuale e del tutto inconsapevole di un circuito chiuso. E tutto quasi per un intero film! Chapeau cento, mille, milioni di volte, Mr. Glazer. Accontentiamoci, si fa per dire, del premio al Film Straniero.
– Apperò, vedi? A questo aspetto non avevo pensato. …Ma quindi l’Oscar al Film Internazionale per chi lo avresti voluto?
– Naturalmente per “Io Capitano” di Matteo Garrone. Nessuno dei restanti tre titoli in lizza, compreso “Perfect Days” di Wenders, era all’altezza di competere con il magnifico Leone d’argento dell’ultima Mostra di Venezia. Come non lo sarebbe stato neppure “Anatomia di una caduta”, film di notevole statura (si è portato comunque a casa la statuetta per lo script originale), che tuttavia il Paese d’origine, la Francia, ha preferito far gareggiare nella categoria maggiore dei Best Picture. Pungerà, e molto, a noi italiani, ma a Garrone è toccata la ventura di gareggiare con una corazzata imbattibile, di quei film che ne esce uno ogni dieci anni, forse venti. Quindi pazienza.
– C’è anche chi è rimasto a bocca asciutta, come il “Killers of the Flower Moon” di Martin Scorsese.
– Forse te lo ricorderai: per me non avrebbe dovuto neppure essere preso in considerazione, nella lista di quest’anno. Il peggiore Scorsese di sempre, un carcassone alla deriva infelicissimo e noiosissimo, quasi una mancanza di rispetto all’effettiva, spontanea qualità di “Maestro” e di “The Holdovers”. Su “Barbie” e l’ignobile “Past Lives” non perdo tempo neppure ad accanirmi. L’Oscar per la sceneggiatura originale è andato all’insulso “American Fiction”, inserito nella decina dei candidati per tenersi buoni i Black, tutt’altro che in grado, ahimè, di reggere il gioco interessante sulla carta ma fallimentare per colpa di una regia goffa e telefonata, di denunciare con quel glamour garbato che al cinema riesce molto meglio agli ebrei bianchi l’eccesso di politicamente corretto che affligge l’esistenza di uno scrittore nero, colto, equilibrato e civilissimo. Felicità vera, invece, per il doppio premio alle stupefacenti scenografie e alla prodigiosa inventiva dei costumi di “Povere Creature!”
– Insomma, del vincitore assoluto proprio non vuoi parlare?
– Non solo non voglio parlarne, ma vorrei che ci si dimenticasse in fretta di questo spropositato trionfo. Se lo Scorsese di quest’anno avanzava con la coriacea pesantezza della pece, nel caso del film sul famoso bombarolo parlerei piuttosto di “controcinema”: come succede con ogni altro film di questo signore londinese che non voglio nemmeno nominare, forse stavolta appena più interessante per la qualità della fotografia e dell’eccellentissima prova dell’attore non protagonista, meritatamente candidati e giustamente vittoriosi (considero anzi l’Oscar a Robert Downey jr un riconoscimento doveroso all’integralità della sua carriera), la visione comporta fatica, fastidio, diffidenza (sì, diffidenza: più volte mi è venuto di chiedermi “perché fa così?”, “ma come me la sta raccontando?”, “perché deve complicarsi la vita e perdersi in queste inutili e arzigogolose bellurie che rallentano, distraggono, e soprattutto azzerano la mia empatia con quanto vedo succedersi sullo schermo?”), e alla fine del film esci e ti domandi: “Ma non era meglio se lo dirigeva Clint Eastwood?” Che scandalo vedere Spielberg consegnargli la statuetta per la Migliore Regia. Ci perdonino dal l’alto dei cieli Hitchcock, Kubrick e Orson Welles, che di Oscar non ne tenevano neanche uno finto nel cassetto.
– Non sei felice neppure per Cillian Murphy?
– Tre ore di faccia di carta vetrata dolente e contrita? Ah ah ah macché! Un brindisi, invece, sonoro e più che convinto va al vero grande sconfitto di questa edizione degli Oscar 2024: lo stratosferico Paul Giamatti di “The holdovers”.
– Cin cin! Forever!
– Chiuderei in bellezza con una nota allegra e tenera: “The holdovers”, felice ritorno di Alexander Payne dietro la macchina da presa 10 anni dopo il buon “Nebraska” e un titolo un po’ fuori fuoco del 2017 “Downsizing” (quell’anno aprì la Mostra di Venezia), ha conquistato l’Oscar per l’attrice non protagonista con la meravigliosa Da’Vine Joy Randolph, che con il suo amorevole e matronale sorriso spero metta d’accordo tutti i cinefili, sia quelli simpatici, sia quelli antipatici. Posso andare, ora?
– Non ti trattengo.