Adrian Piper (1948, New York) è in mostra al PAC di Milano dal 19 marzo al 9 giugno. Diego Sileo ha curato i sessant’anni di carriera della vincitrice del Leone d’Oro 2015, condensandoli nella prima retrospettiva europea degli ultimi vent’anni dell’artista afroamericana, dal 2005 esule a Berlino. L’esposizione riunisce oltre cento opere provenienti da musei internazionali. Installazioni, video, fotografie, dipinti e disegni materializzano la «patologia visiva» del razzismo e l’immagine stereotipata degli afroamericani.
Nella prima sala, corrispondente alla produzione creativa preliminare e antecedente all’ingresso della giovane Adrian alla School of Visual Arts di New York, opere dal carattere figurativo somatizzano un’esigenza espressiva e introspettiva pregnante. È l’inizio dell’indagine dell’io, del mondo che abita e che la circonda, compreso lo spazio. L’utilizzo di griglie geometriche caratterizzerà la sua cifra stilistica. Il tacito tentativo è di guardare oltre la superficie delle cose, di cogliere il noumeno kantiano sotteso alla sua intera opera. Gli «LSD paintings» sono nucleo concettuale di questa prima fase orientativa. Contrariamente a quanto suggerisce il nome, non sono realizzati sotto l’assunzione di sostanze stupefacenti, ma grazie all’apertura mentale e spirituale derivante da pratiche quali la meditazione, lo yoga e la lettura filosofica. In «LSD Self-Portrait from the Inside Out», del quale la scelta dei colori riverbera la cultura afro, la concentrazione profonda porta alla frammentazione del soggetto.
La riflessione sul tempo e lo spazio, in relazione al suo essere nel mondo, continua nella seconda sala, nella serie delle «Hypothesis» che la impegna dal1968 al 1970. Scatti fotografici documentano momenti di quotidianità. Un diagramma di assi temporali e spaziali riordina i fotogrammi, conferendogli coerenza narrativa. La maturità politica la coglie nel 1976 con l’installazione «Art for the Art World Surface Pattern». Un cubo bianco, austero e minimalista, tappezzato di immagini giornalistiche di atrocità avvenute nel mondo. Su di esse campeggia una scritta provocatoria rosso sangue «Not a Performance», mentre l’audio trasmette la «voce» dell’americano medio diffidente e indifferente. È l’opera che anticipa il fil rouge della seconda sala. L’attenzione alle discriminazioni razziali e di genere, ma anche ai meccanismi storici e culturali, minimi comuni denominatori di identità socialmente predefinite. In «Close to Home» l’artista interroga lo spettatore con una serie di quesiti a risposta multipla su relazioni interpersonali di varia natura con persone di colore. Un’opera che imbarazza il pubblico benpensante e la società mascherata dall’ostentato buonismo.
Nella terza sala si trova una delle due opere più recenti esposte in mostra: l’installazione «Das Ding-an-sich bin ich» del 2018, il cui titolo fa riferimento al sopra citato noumeno kantiano, una realtà che si trova al di là di ciò che appareai sensi. Su una pavimentazione a griglia campeggianootto parallelepipedi con pareti a specchio con l’obiettivo di chiamare in causa il visitatore. Lingue diverse si confondono in un coro degno della torre di Babele.
L’indagine su sé stessa e la relazione con il mondo approda alla percezione sociale della sua esistenza. Tra il 1978 e il 1980 realizza la serie dei«Political Self-Portraits» autoritrattisovrappostida lunghi testi autografi che tracciano lo sviluppo delle proprie convinzioni politiche. Non solo impegno civile, Adrian dà in pasto allo spettatore anche l’intima vicenda familiare del lutto per la morte della madre. Un fatto talmente prepotente da ostacolare la realizzazione della mostra «Reconsidering the Object of Art»al MOCA di Los Angeles. L’artista, venuta a conoscenza del fatto che la Philip Morris sarebbe stata tra i finanziatori, ritira il proprio lavoro offrendo un surrogato. Si tratta di «Ashes to Ashes», un’opera che viene rifiutata in quanto denuncia i danni letali che il fumo da sigaretta ha provocato nella vita dei suoi genitori. Una dedica d’amore alla madre deceduta e una dichiarazione di guerra al sistema omertoso e censorio. Ma è «Race Traitor», opera del 2018, che dà il nome alla retrospettiva. Un’autoritratto che indaga il sentimento identitario.
Nel parterre la serie «Ur-Mutter» del 1989 ritrae una coppia africana madre-figlio in condizioni di povertà accostata ossimoricamente a immagini che richiamano il consumismo americano. Ma è con «Pretend» che la violenza prevaricante delle istituzioni diviene corresponsabilità. Immagini tratte dalla stampa mostrano il trattamento brutale riservato agli afroamericani. Un’efferatezza che scala il limite tollerabile sino a manifestarsi senza filtri in «Black «Box / White Box»del 1992. Due ambienti protetti nei quali riflettere sul caso di Rodney King, afroamericano vittima di un violento pestaggio da parte della polizia di Los Angeles.
In balconata, oltre alla passione per la danza, fa capolino una versione transgender dell’alter ego maschile dell’artista «The Mythic Being», nato nel 1973. L’obiettivo è quello di sperimentare l’identità nativa afroamericana in una diversa identità di genere. Una sua foto e una nuvoletta di pensiero debuttano sul «The Village Voice». Il rapporto con i media prosegue tra il 1986 e il 1989 nella serie dei «Vanilla Nightmares». L’artista disegna con matita e carboncino alcune pagine del New York Times dando libero sfogo all’inconscio della società americana.
Nella galleria «What It’s Like, What It Is #1»il visitatore diviene oggetto dell’osservazione altrui. Attraverso delle finestre fittizie, è la «minoranza»a guardare gli spettatori. Con «Everything»(serie del 2003 ancora in corso) arriva il disincanto dell’artista rispetto alle illusioni sulla società in cui viveva e con esso una riflessione sulla transitorietà. Una delle opere più iconiche di Adrian Piper è «Funk Lessons», una performance collaborativa inscenata dal 1983 al 1985. Il patrimonio afroamericano funk diviene così anche americano, in un «melting pot» ideale. Ma è a Berlino che il cerchio si chiude. Nel 2007 ad Alexanderplatz, l’artista realizza una performance di danza sulle note dell’house music berlinese degli anni 2000. In «Adrian Movesto Berlin» esprime la ritrovata leggerezza, in una città in cui un popolo precedentemente diviso in due dalla storia, ha saputo trasformare l’ideale in concreto, grazie alla forza della musica.