Tremenda e mai volgare, sussurrata si, quasi a volere dimenticare il grido di Bobby Peru cantato da Mary & The Boy. Così si presenta il canto di Giulia Messina nell’opera video The blood rites of the bourgeoise creata assieme a Giulia Spreafico e Rui Wu (t-space), in collaborazione con Massimo Space (Stefano Galeotti, Giulia Parolin, Martina Rota). Dapprima esposta a Villa Olmo a Como il 16 dicembre 2023 e successivamente arrivata da Specific-Bim a Milano, il 6 marzo 2024.
Due date per un’opera unica, ove si annodano le estremità di una concezione pittorica e fotografica, video e performativa, di canto e recitato. Il tutto innestato su di una pulizia di visione, e nel bisbiglio prorompente dei silenzi, tanto delicati da radicare lo sguardo tra verità e finzione. La voce è lieve, leggera a tal punto che sembra assopire l’efferatezza da cui si ritrae. Anita Lane, potremmo dire, ai tempi di Dirty pearl e delle sue collaborazioni con il tossico post-punk che si rincorreva sulla scena tra la Berlino divisa e l’Australia dei The Birthday Party. Quando anche la musica era strada (o di strada), suonata innanzitutto per il gusto di farlo e per il volere, per l’affermazione o la protesta, l’anticonformismo e la brutalità.
Eppure zeppa, per chi ha voglia di ascoltare, di nenie e armonie. Un motivo ripetuto come quello che appare in opera, che striscia tra i resti di una mise en place e il lascito di una cena passata. Un’idea che incontra il suo spunto nella pratica della stessa Giulia Messina, le cui nature morte a pennarello hanno sempre come antecedente (o parte comunque dell’opera) una cena o una festa. Un banchetto più o meno opulente, ma di certo bene imbandito, del quale l’artista trattiene l’immagine-traccia di ciò che è stato consumato e consunto, ottenebrato e insieme presente dall’agire dei commensali.
Ebbene, di quel pasto rimane solo la sua “figurazione” sintetica, ora collocata sopra un tappeto di erba finta e composta di oggetti e luci accuratamente posizionati. Luminosi e nitidi, artefatti, per dirlo in una parola, quasi a ricordarci che la “finzione” è la base di ogni opera: la memoria imperfetta di un’esperienza che può essere rivista e, ciononostante, oramai passata. Una visione pulita, quindi, che, mediante la maestria propria di t-space nella “costruzione” di un’immagine, intercetta il favore dell’esperienza. La latente possibilità che ancora oggi si possa trarre per via di flashback e movimenti sporchi, un eventuale poetico anche dal vissuto più sozzo.
“Cosa c’era sotto (What was underneath it)” dice la canzone ispirata alla già citata Bobby Peru. “In questo bel giardino che abbiamo costruito (In this pretty garden we built)”, continua, “mi incolpi solo per qualcosa di vero (Just blame me for something real)”. Quel che sta sotto è quel che appare, almeno in un’opera. Ed è qui che torna l’essere tremendo. L’impeto di uno scontro con ciò che sta intorno e che “è così maledettamente falso (Its so goddamn fake)”, e la sua antitesi che, per assurdo, è posta ed evocata dalla dimensione dell’opera, da ciò che è costruito e dalla sua aura. Sguardo su sguardo e autentica spinta della finzione, per un barlume d’autentico oggi quanto mai sempre più necessario.