Seconda puntata di In The Sign, rubrica realizzata dal team di LCA Studio Legale che ha come focus una serie di approfondimenti dedicati al tema dell’industrial design, i cui protagonisti saranno quegli oggetti che, date le loro caratteristiche creative e il loro “valore artistico” sono state ritenuti tutelabili anche ai sensi della legge sul diritto d’autore.
Molto spesso, quando si parla di “copie” di oggetti di design particolarmente noti, l’attenzione – come giusto – si concentra sul contraffattore, e sui profili di responsabilità che quest’ultimo sarà chiamato ad affrontare in ragione dell’ingiustificato arricchimento ottenuto attraverso la vendita di un oggetto (mobili, ma la mente può vagare anche su altri esempi) che riprende gli elementi caratteristici e le forme dell’opera dell’ingegno altrui.
La differenza, infatti, tra la copia e l’originale, nel mondo del design industriale, non risiede (solo) nella differente qualità della materia prima utilizzata per realizzare l’ambito “pezzo da collezione” – anzi, nulla vieta che un ottimo e sapiente artigiano possa produrre una “copia” che, sotto il profilo della manifattura, non ha nulla da invidiare all’originale.
Quello che, in questo caso, viene svilito, è l’estremo impegno e investimento fatto dal designer, e dalla casa di produzione che sta alle sue spalle, nell’ideare qualcosa di nuovo, unico e distinguibile.
Generalmente, lo “sfruttamento” di una copia causa dei guai solamente a chi la produce e commercializza, non al (più o meno incauto) acquirente dell’oggetto non originale, che una volta accolto in casa potrà, semmai, generare a suo favore una immeritata, ma “innocua”, ammirazione da parte di parenti, amici e avventori.
Generalmente, appunto. Non se sei Kim Kardashian e di quella “copia” ti vanti in un video dove mostri gli uffici, e il relativo arredamento, della tua società di skin care. “I’ve really gotten into furniture lately” dice l’ignara Kim K. nel video dove mostra la location di lusso in cui prende vita uno dei suoi business di maggior successo.
Le è bastato aggiungere: “These Donald Judd tables are really amazing and totally blend in with the seats” per finire nel girone dell’inferno dei bugiardi e, da qualche tempo, anche di quello dei convenuti in giudizio. La Donald Judd Foundation, infatti, ha deciso di non lasciar correre l’incauta affermazione della celebrity e di agire nei suoi confronti e di quelli di Clements Design, la società che avrebbe realizzato le copie delle opere di Judd.
Dalle indiscrezioni trapelate, principalmente grazie ad autorevoli testate statunitensi come il Washington Post, l’obiettivo della Fondazione no profit che protegge la legacy del noto designer sarebbe stata quella di ottenere l’immediata distruzione delle copie messe in circolazione da Clements Design e che sarebbero state presentate a Kim Kardashian come tavoli (e relative sedute) “in the style of Donald Judd”.
Le trattative stragiudiziali non avrebbero, però, portato a una soluzione soddisfacente della questione, dal momento che la società produttrice del mobilio ha continuato a sostenere che vi fossero degli evidenti elementi di distinzione tra la loro produzione e quella riconducibile al noto designer.
Differenze che, ad ogni modo, più o meno consapevolmente, nemmeno la nota influencer ha deciso di (o, forse, ha preferito) portare alla luce nel video “incriminato”, ormai sparito dai social – per ogni eventualità.
Resta il fatto che, stando al sito dell’artista, i design autentici di Judd sono disponibili solo su ordinazione e sono venduti in associazione al marchio registrato del brand di Judd, sicché in questo caso è davvero difficile immaginare di trovarsi di fronte a un “errore in buona fede”.
Il design come status simbol. Il design come argomento di conversazione. Il design come “anche io ne capisco qualcosa, vedi”. Certamente, ma con la dovuta cautela e attenzione, se sei una star globale.