La mostra L’incanto del vero. Frammenti di quotidiano nella natura morta tra Sei e Settecento, a cura di Lucia Peruzzi, presenta un nucleo di 15 nature morte della collezione di La Galleria BPER Banca. Anche grazie al corredo documentaristico, l’esposizione ricostruisce le abitudini alimentari dell’epoca (in particolare alla corte estense), esuberanti e precisissime al tempo stesso. Dal 5 aprile al 30 giugno 2024, a Modena.
Il ferrarese Cristoforo Messi Sbugo (post 1482-1548), officiale della Spenderia della corte estense, all’epoca dei duchi di Ercole I, Alfonso I e Ercole II, definiva i suoi banchetti “ombra, sogno, chimera, finzione, metafora e allegoria“. Una serie di appellativi che avvicina i suoi allestimenti culinari, come scrive nel catalogo di mostra Chiara Pulini, curatrice dell’Archivio storico di BPER Banca, a “una rappresentazione teatrale che coinvolge tutti i sensi dei commensali“. Creatività, senso estetico, forza persuasiva. Sostanzialmente, un’opera d’arte.
I banchetti di Messi Sbugo, così come quelli dei suoi colleghi, cuochi letterari, esperti di cibi e banchetti, tradiscono un certo gusto per la spettacolarizzazione, il cui riflesso possiamo notare tanto nelle tavole imbandite dei sovrani e dei signori del Sei e Settecento, così come nelle tante nature morte che all’inizio del XVIII secolo iniziavano ad abbellire le pareti delle dimore aristocratiche. Quella dei cuochi letterati, delle sorte di direttori creativi della cucina, è solo una delle tante figure che affollavano le corti del tempo, delle grandi aziende che richiedevano “un elevato grado di specializzazione delle attività lavorative e rigidi controlli incrociati dal punto di vista amministrativo“. Tra i settori più critici vi era proprio la cucina, le cui luci erano sempre accese e la sua attività incessante. Un continuo arrabattarsi tra preparazioni e fornelli che ben esemplifica il genere delle nature morte, di cui un nucleo prezioso La Galleria BPER Banca espone a Modena in una mostra che ne evidenzia il lato paradossalmente più nascosto, dal momento che in realtà è anche quello più didascalico.
Lo still life, citando la sua nomenclatura britannica, è difatti uno dei generi più poetici e metaforici esistenti in pittura. Di esso siamo portati a saltare l’interpretazione più diretta, accedendo subito alla dimensione allusiva, quella riconducibile alla precarietà della vita, al tempo sospeso, a quello perduto, a quello mai giunto. Pensieri che risuonano in noi, che assumono il sussurro di un monito (carpe diem!) e accendono riflessioni esistenziali. Eppure, a ben guardare, di base, si tratta della rappresentazione scenica di una serie di alimenti. Prima delle metafore, prima delle sovrastrutture e dei ragionamenti retorici, questi dipinti restituiscono l’idea della quotidianità che le cucine del tempo vivevano, di quel che i lori signori mangiavano e di come lo mangiavano.
Attraverso l’ausilio di cibari e inventari del tempo, esposti in teche apposite, la mostra svela l’universo sotterraneo che animava le corti estensi e ne cibava tutti gli abitanti. A partire dallo stuolo di ufficiali e serventi che operavano in cucina, tutti con un compito ben preciso: dallo scalco (un servitore di alto rango che soprintendeva a tutte le attività), fino ai sottoscalchi, spenditori, panatieri, canovari, credenzieri, bottiglieri, cuochi e altri ancora. Ogni loro piccola operazione veniva registrata in appositi registri, a cui interno ritroviamo gli elenchi della spesa, gli inventari, i menu settimanali predisposti per ogni stagione, così come per i periodi di magra e di grassa.
I precetti religiosi nel Sei e Settecento, infatti, influenzavano notevolmente la dieta delle persone, tutte più o meno forzate ad alternare periodi di libertà ed eccesso ad altri di morigeratezza (come durante la quaresima). Differenze che ritroviamo anche nelle nature morte esposte, che spaziano dall’abbondanza orgiastica di Natura morta con figure di Adriaen van Utrecht, o di Interno di cucina con tacchino spennato e sporta con pesci di Nicola Levoli, dove abbondano selvaggina, frutta e verdura di ogni tipo, a scene di più severo rigore alimentare, dove il pesce sostituisce la carne, in linea con i dettami della Chiesa.
Sulla tavola dei signori del tempo – e quindi nelle nature morte, a tutti gli effetti una sorta di backstage, di antefatto dei banchetti sensazionali a cui facevamo riferimento in apertura – non poteva poi mancare una vasta scelta di zuppe, così come un’ampia varietà di pasta (a maggior ragione in Emilia, dove la tradizione è antica), spezie (anche se, allontanandosi dal medioevo diventano sempre meno, con i gusti che andavano raffinandosi e alleggerendosi), pane e dolci, rigorosamente tutto insieme, nello stesso momento. Non vi era infatti gerarchia o successione temporale nel servizio delle portate, presentate contemporaneamente in un effluvio di cibi a disposizione dei commensali.
Una cultura culinaria precisa ed esuberante al tempo stesso, che per garantire magniloquenza in tavola doveva servirsi di un estremo rigore in cucina. Una sovrabbondanza di vivande che non trova certo riscontro nelle necessità alimentari, quanto più nel desiderio dei signori di sentirsi potenti attraverso l’esercizio del privilegio del cibo, “come retaggio di una cultura medievale che identificava il ricco signore nel grande mangiatore“. In tal senso i dipinti offrono uno spaccato visivo eloquente di queste dinamiche, dando testimonianza di vari momenti della filiera: l’approvvigionamento, la conservazione, la preparazione, la presentazione scenica e barocca della tavola.
Una validità documentaristica, quella dei dipinti, che trova certificazione nella piena aderenza di alcuni di loro con quanto contenuto ricettari. Il riferimento è a due opere di Cristoforo Munari, le quali riprendono precisamente altrettante ricette di dolci rinvenute nell’Archivio segreto estense. Per far fabbricare la cioccolata in casa (1963), a metà strada tra una ricetta vera e propria e una prescrizione alchemica, propone un’artificiosa serie di passaggi per la realizzazione casalinga della cioccolata, tra cui spicca una dettagliata descrizione della cioccolatiera. La stessa che troviamo in Natura morta con ciambelle, cioccolatiera e alzata di Munari, dove numerosi oggetti distribuiti casualmente raccontano forse di una merenda consumata in modo frugale. In Natura morta con spartito, violino, brocca di peltro, alzata con bicchieri, piatto con anguria e dolci, ciotola di porcellana cinese e uva, sempre di Munari, vediamo invece abbondare le bracciatelle, o brazzadelle. Un dolce tipico ferrarese, a forma di ciambella, la cui modalità di produzione è dettagliatamente riportata nella ricetta Per fare bracciatelle alla gesuitica (XVIII secolo).
Dunque, nonostante all’apparenza una lettura di questo tipo sembri svuotare di contenuto lirico le nature morte, al contrario ne consolida i presupposti di verosimiglianza e ne incrementa indirettamente la portata artistica, certificando come la loro abbondanza non sia affatto un vezzo barocco, ma la lucida esagerazione che ogni giorno si viveva nelle cucine nella metà del millennio scorso. Un’altra occasione per ricordarci che L’incanto del vero spesso supera quello della fantasia. E che la realtà, alla stregua dell’arte, è solo un’altra forma in cui l’immaginazione umana si manifesta.