Pare rompere il gioco didascalico la mostra di Daniele Toneatti (Venezia, 1989) presso Peres Projects a Milano (Brand New Love, 16 febbraio – 14 aprile 2014). Un gioco furbo o, meglio detto d’opportunità, che tratti di questo e di quello nel favore dei temi, buoni di sicuro, diceva Luciano Fabro, per l’arredo. Sta di fatto che l’esposizione personale dell’artista veneziano classe 1989, getta all’occhio gesti, segni, colori e forme per fare, invece, della pittura il punto di crisi. Poiché il dipingere, nel suo caso, diventa critico in se stesso e, in senso stretto, agitazione per un repentino cambiamento.
Viva passione di foga e riflessione, amore e prova, avvolto forse da irresolutezza, secondo quella porzione di significato che il termine porta con sé: irregolare e mai risolto. Quadri tangenti tra loro e con la dimensione spaziale composta coi fiocchi, per non abusare delle pareti, ma ricollocare l’esercizio del fare (o di ciò che è stato fatto), nella direzione complessa e mai unilaterale di una ricerca.
Nell’allestimento-atlante la pittura diventa così, nella sua incompletezza, un momento lungo nel tempo che si muove da un d’après di una fotografia di un Fragonard incorniciato (just before they split, 2023), alle composizioni più rapide e schizzate quali blue charcoal e Chaos (2023). Lo spazio come il titano “regge” la prova, mentre il quadro, ogni singolo quadro differente per traccia e dimensione, ammicca allo spettatore regalando andamenti e articolazioni di un’esperienza estetica specificatamente pittorica.
Il vezzo illustrativo (hard truths; Leave the door open, 2023), l’astrazione quasi espressionistica di elementi stratificati (Romantic Painting; Don’t Look Now, 2023), la veduta a dir poco “classica” di un ragazzo in sovrappeso sul bagnasciuga (Classic Impression, 2023): di tutto ciò, quale attenzione ne determina il fil rouge? Quale passo è stato compiuto e quale rimane ancora da compiere? Certe sono l’inclinazione, la metodica, la fascinazione per la non linearità di un processo, per la causa mai statica del processo che mette e rimette l’arte in opera. Verso l’unità di un puzzle, l’unità “animata” della non finitudine che riprendendo la “pittura provvisoria” di Raphael Rubinstein, silenzia le definizioni che vorremmo sentirci dire per comodità, per tendenza e per gusto. Al contrario, è memoria di una prassi che insegue e suggella l’apparire scomodo, ma mai infastidente, di opere “casuali, affrettate, tentative, incomplete, autonullificanti”.
Opere da opere, anche, trovate o scattate, capitolanti dal rischio dell’evanescenza o nella riverenza di una ripresa, come nel caso di Venetian Red (2023), un dipinto tratto da una foto di una foto di Cindy Sherman. A far sì che l’altro diventi il proprio, che la volta dell’immagine e il suo utilizzo non sia soggiogante, che riprenda invece quel lato critico di cui tanto si discute, ma che di fatto poco interessa, se non tira dritto sulla via della scelta. La via del possibile, la strada dell’intrapresa che oltre a delineare la complessità dell’esperienza, avalla l’ipotesi della conoscenza e della scoperta per mezzo di un atto estetico. Puzzle abbiamo detto, non secondo la pretestuosità di immagini “riquadrate” e cucite l’una sull’altra.
La direzione di Daniele Toneatti verte sull’ipotesi e insegna, piuttosto, la veridicità di un momento quale tassello fondamentale, misero anche, magari essenziale, la sorte mai scontata di un apprendimento, quello della facoltà pittorica nei limiti di un’immagine.
E non ne abbiano a male gli arredatori d’interni, in quanto il paragone iniziale è cosa nota, almeno sin dai tempi di Picasso. “La pittura non è fatta per decorare gli appartamenti”, diceva lo spagnolo, con un frammento d’aforisma che ora – in maniera indiretta e implicitamente – Toneatti sembra fare suo.