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La Bussola di Ago. Challengers, di Luca Guadagnino

Challengers, di Luca Guadagnino (2) Challengers, di Luca Guadagnino
Challengers, di Luca Guadagnino (2)
Challengers, di Luca Guadagnino

È il tennis il protagonista assoluto dell’ultimo film di Luca Guadagnino, secondo Onofri il più grande regista italiano vivente

– Pronto?

– Ohi, ciao! Come mai a quest’ora?

– Scusami, dormivi già? Dici sempre che spegni la luce non prima delle tre…

– Infatti stavo leggendo. Non disturbi, tranquillo. Ma a cosa devo questa chiamata notturna?

– Sono appena uscito, tutto elettrico e frastornato, dal nuovo film del più grande regista italiano vivente.

– All’anima! E chi è? Sorrentino? Garrone? Bellocchio?

– Ahahah, macché Bellocchio! Prima di tornarmi digeribile dovrà farsi perdonare quel pastrocchio che è “Rapito!”… Ho visto “Challengers” di Luca Guadagnino.

– Così bello?

– Pazzesco. Ho addosso un’adrenalina che non potevo portarmi sotto le lenzuola. Perciò ti ho telefonato. Per smaltire la fibrillazione…

– Addirittura! Ti sento, infatti, un’insolita foga nella voce.

– Ma sai che, vado a memoria, non vedevo un film così perfetto almeno da “Gone girl” di David Fincher?

– Che è di 10 anni fa.

– Esatto. Hai presente quel magico accordo tra sceneggiatura di ferro (sia lode a quel padreterno di Justin Kuritzkes, che ha scritto anche il soggetto), una prodigiosa chimica di attori, e una regia magistrale che è in realtà un miracoloso meccanismo ad incastri, audace nell’adozione di un linguaggio sperimentale alla portata di tutti i palati, sia di chi ha gli strumenti per accorgersene, sia di chi dal cinema pretende essenzialmente una buona storia dal ritmo sostenuto che lo catturi dai titoli di testa e non se lo perda per strada fino a quelli di coda? Tutto questo è il nuovissimo “Challengers” (era già pronto a settembre, quando doveva inaugurare Venezia, ma lo sciopero di Hollywood mandò tutto all’aria), più che un film, un implacabile congegno ad orologeria, scandito da una suite di sequenze cesellate con la mano virtuosa di chi sa controllare la propria sterminata affezione per i personaggi (tra le creature meglio scolpite e chiaroscurate di tutta la ormai nutrita cinematografia di Guadagnino, sempre abilissimo nel trascinare i suoi attori in una complicità fisica e psicologica totale ad esclusivo servizio della riuscita narrativa e spettacolare della messa in scena) illuminandone i gesti, i corpi e i primi piani con epifanie rivelatrici di malcelati sussulti emotivi, che spesso e volentieri aderiscono con precisione adesiva allo stupore, allo scorno, alla stizza o agli scoramenti dei protagonisti: un reticolato dal quale è un piacere sottile ed erotico lasciarsi irretire, sollecitati dagli azzardi delle inquadrature, dalla volatile mobilità dei movimenti della macchina da presa, da una colonna sonora di qualità superiore (firmata dal duo “fincheriano” Reznor/Ross) che invade la scena e il sonoro come la voce nel megafono di un regista che aizzasse i suoi attori l’uno contro l’altro per pompare al meglio le loro prestazioni.

 

Challengers, di Luca Guadagnino (2)
Challengers, di Luca Guadagnino

– Ma il tennis?

– Certo, il tennis. È lui il protagonista assoluto del film. Sport solistico per eccellenza, pare inventato apposta per scatenare l’ego di ogni atleta opponendogli quello altrettanto complesso e strutturato dell’antagonista, in un lento e snervante gioco al massacro allo scopo di conseguire il trofeo in palio: una coppa, un amore, un’amicizia, o il riscatto di un’intera vita. Ma l’elemento più interessante di “Challengers” e della sua trasparente metafora sportiva è senz’altro il suo manifesto sul gender, nella tornata di questo primo quarto di secolo post-Covid, segnata dalla fluidità e dall’indefinitezza dei sessi. Guadagnino, con la grazia e il coraggio dell’intellettuale gentiluomo controcorrente che oggi in pochi possono permettersi, scardina ogni certezza spacciata per dogma dalle modaiole attitudini woke: per lui i generi sono soltanto due, il maschio e la femmina, patterns solidi e indistruttibili sui quali ognuno è libero di edificare il proprio universo erotico e sentimentale scegliendo a proprio piacimento e secondo l’estro delle circostanze l’oggetto del proprio piacere: se con maggiore o minore consapevolezza non ha poi così troppa importanza. Ciò che preme a Guadagnino è mettere in evidenza l’assoluta estraneità delle differenti parti in causa, destinate a rimanere separate e distinte nonostante la naturale attrazione fisica: uomini da una parte, donne dall’altra, senza alcuna possibilità di comunicazione. La metafora sportiva di una disciplina non a caso nettamente divisa tra maschile e femminile si incarna in quella complicità che si verifica nei rari momenti in cui la grazia e l’assoluta bellezza dell’agonismo portano i contendenti a dimenticare la posta in palio, il premio finale, la vittoria, per godere insieme in un’estasi quasi dionisiaca che li proietta in un’altra dimensione, nella piena purezza del piacere del gioco. È perciò impossibile che ciò si verifichi tra due sessi diversi, perché il duello a colpi di racchette è riservato esclusivamente o ai maschi o alle femmine. Il regolamento non contempla altro. Mike Faist e Josh O’Connor, recondita armonia di bellezze diverse, l’uno biondo, scaltro, freddo e calcolatore, l’altro moro, fragile e istintivo, cagnolone sciolto ma forse più sexy, ricreano il sodalizio maschile perduto a causa dell’amore per Zendaya, giovane campionessa dalla sensualità esotica e felina, ma è lei stessa, tirandosi fuori dalla partita a tre in qualità di non si sa quanto volontaria spettatrice, ad innescare il gioco degli altri due, spingendoli a ritrovarsi nella bolla esclusiva e privatissima del “grande tennis”, in quello spazio agonistico tutto maschile di solidarietà e connivenza che sublima la loro eventuale, e comunque casuale, non necessaria, e perciò naturalissima attrazione omoerotica. Ma questo, in fondo, è solo il “contenuto” di un film dove il cinema ritorna alla primordialità nordamericana degli schermi riempiti da corpi umani monumentali e iconici, da simboli archetipici perfettamente decifrabili come l’amore, l’amicizia virile, il denaro, la povertà, il sesso: il vento è “il” vento, e quando soffia vuol dire che il racconto, come il fuoco che arde in un camino, va alimentato e riacceso calcando il pedale del mélo e del grande spettacolo. Il cinema di Guadagnino, che qui omaggia Hitchcock in più punti con eleganza suprema e sottile, e gira i dialoghi come fossero i colpi delle racchette di un match, non abbandona mai per un solo istante l’idea che tutto quello che viene raccontato sullo schermo non vada detto a parole, ma piuttosto mostrato con immagini, segni, gesti, come nei dipinti, anche quelli antichi, che per essere compresi vanno decifrati in dettaglio, al di là di quanto informi la targhetta museale che li descrive. ”Challengers” è la trionfale epitome di questo ideale di cinema sano, fertile, materico, colorato, muscolare, sudato e fisico, ma anche pulsante di amore e pietà verso gli umani errori: un invito a lasciar perdere sovrastrutture utopistiche e dogmatiche, e a seguire, nel pieno dominio delle facoltà tattiche e strategiche della mente, il vitalistico istinto che ci spinge verso l’impossibile sogno della felicità terrena.

– Accidenti. Ti è garbato parecchio, vedo. Ma… sei sicuro che Guadagnino abbia voluto dire tutto questo?

– No. Ma mi è piaciuto trovarcelo dentro io. È la bellezza del Cinema. È la bellezza dell’Arte. E una volta che hai pagato il biglietto, il resto è gratis. E adesso a ninna. O buona lettura.

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