In anteprima italiana abbiamo avuto la possibilità di chiacchierare con i curatori del Padiglione del Brasile alla prossima Biennale, ribattezzato per l’occasione con il nome di Hãhãwpuá
Senza ombra di dubbio si tratta di un momento storico per tutte le comunità indigene, in fatto creativo e non solo: la Biennale di Venezia, la più antica e internazionale delle manifestazioni legate all’arte di oggi, sancisce un nuovo riconoscimento all’attività delle aree native con una buona percentuale di presenze di artisti indigeni nella mostra del curatore Adriano Pedrosa, ma anche con il Padiglione del Brasile – uno dei Paesi al mondo con più territori appartenenti a comunità originali – che è stato ribattezzato Padiglione Hãhãwpuá, esattamente “terra originaria”.
E per chi ancora pensa all’arte indigena come qualcosa di naif probabilmente questa sarà anche l’occasione buona per ricredersi, se non altro per la profonda consapevolezza che traspare dalla chiacchierata che abbiamo avuto – in anteprima – con i curatori del Padiglione Arissana Pataxó, Denilson Baniwa e Gustavo Caboco Wapichana, che si sono occupati di “Ka’a Pûera: Nós Somos Pássaros Que Andam”, titolo del Padiglione, che ospita il progetto di Glicéria Tupinambá realizzato in collaborazione con la Comunidade Tupinambá della Serra do Padeiro e Olivença, nello stato di Bahia – con la quale l’artista ha realizzato le sue installazioni, a cui si aggiungono gli interventi di Olinda Tupinambá e Ziel Karapotó.
«Cosa significhi questa partecipazione per la comunità artistica indigena ancora non lo sappiamo, forse tra dieci anni avremo una risposta, se ne sarà valsa la pena o se siamo caduti in una trappola», mi rispondono i curatori, che rimarcano un aspetto fondamentale nella costruzione del Padiglione e della sua poetica, ovvero la volontà di andare oltre la denuncia dell’antica colonizzazione e del nuovo colonialismo: «Il Padiglione non è un tentativo di innalzare il cielo, come interpretano i bianchi il libro di Davi Kopenawa [Davi Kopenawa Yanomami è uno scrittore, attore, sciamano e importante leader politico Yanomami, attualmente Presidente dell’Associazione Hutukara Yanomami, un’entità indigena per il mutuo aiuto e lo sviluppo etnico, ndr], HãHãwpuá parla di costruire un mondo sulle macerie di un cielo che è già caduto. É meno sulla denuncia della colonizzazione e più sull’atto di recuperare e ricostruire. Pertanto, dal nostro punto di vista, speriamo che il Padiglione e il pubblico entrino in contatto attraverso ciò che non ci si aspetta da un artista indigeno, che il significato della foresta sia contaminato da altri significati: comunità, trappole, incantesimi e uccelli. che si mimetizzano, in una foresta intesa come una folla che reagisce e si prende cura dei suoi simili».
Un padiglione, dunque, che oltre ad essere una dichiarazione politica in sé – un po’ con il cambio del nome, un po’ per questa “prima volta” della comunità alla Biennale – sarà anche un campo di incontri poetici in una maniera, chiaramente, non occidentale.
Ma come il Padiglione – si legge nel comunicato di presentazione – “racconta la storia della resistenza indigena in Brasile, la forza del corpo nel riprendersi il proprio territorio e l’adattamento delle popolazioni nativi alle emergenze climatiche”, la relazione con la natura è uno dei punti chiavi del padiglione HãHãwpuá: «Non sappiamo se l’arte si preoccupi della natura, ma quando si parla di indigeni è chiaro che sono sono omogenei con la natura, è naturale che la loro vita sia prendersi cura di essa: la natura fa parte del loro stesso corpo, sia nell’arte che fuori di esso. Si può chiamare questa “arte di vivere in comunità”, dove le persone sono cugine dell’albero del cacao, nipoti del torrente e del jequitibá. Non si tratta di un processo per salvare l’ambiente o il pianeta, è un processo per salvare noi stessi», conferiscono Arissana Pataxó, Denilson Baniwa e Gustavo Caboco Wapichana.
Uno dei grandi protagonisti del Padiglione, invece, sarà proprio un Manto Tupinambá realizzato da Glicéria che, nel 2022, aveva raccontato la storia della grande tradizione della sua comunità nel video Quando o Manto fala e o que o Manto diz, esposto recentemente anche al MASP di San Paolo, accanto all’ultima grande collettiva dedicata alle “Storie Indigene”: «Abbiamo inteso il Manto, come altri esseri catturati dai colonizzatori e portati come collezioni fuori dalle nostre terre come dei prigionieri politici che continuano ad agitarsi nei luoghi dove sono stati incarcerati: il manto Tupinambá, ma anche le maschere Baniwa, continuano a parlare dalle loro celle museologiche, mantenendo il proprio respiro vitale e reagendo in una maniera controcoloniale, in un contro-flusso».
Questione aperta, ma apparentemente distante da quello che vedremo dentro il Padiglione HãHãwpuá, è quella che appartiene alla demarcazione delle terre indigene, secondo i curatori non imputabile alla politica, se non altro perché dal 1987 – quando a Brasilia si decise, secondo la Constituição Federal do Brasil, che tutti i territori avrebbero dovuto essere demarcati nell’arco di cinque anni – di anni ne sono passati 36 e poco o nulla è successo a riguardo alla questione. “Questione”, però, non è la parola giusta: «Il diritto della restituzione delle terre a coloro ai quali appartenevano, a quelli a cui furono strappate, destituite, non può essere una “questione”, deve essere una concordanza», afferma il team.
Insomma, la carne al fuoco è molta a tutti i livelli, così come la consapevolezza di essere arrivati a un punto in cui i giudizi e le percezioni potrebbero essere vari e anche distorti rispetto alle intenzioni, ma le possibili critiche non interessano più di tanto al gruppo: «Che il Padiglione venga interpretato come antropologico, artistico, poetico, patetico o pornografico, spero che tutti ne parlino, che non restino apatici. Non abbiamo lavorato con i concetti occidentali dell’essere, potranno anche definirlo antropofagico se vorranno, alla fine due artisti sono tupinambá, un curatore è baniwa, l’altro è wapichana e una pataxó, tutti antropologicamente catalogati come “cannibali”».