Nella mostra a lui dedicata dalla Galleria SIX di Milano, Paul Winstanley. Works 1994-2024 (fino al 20 luglio), troviamo una decina di olii su tela, lino e tavola che riassumono alcune delle fasi del percorso compiuto in trent’anni di attività.
Se “la fotografia”, come sosteneva August Sander, “è per natura un’arte documentaria”, chi – al di là dell’emozione favorita dalla soggettività che l’obbiettivo sempre comporta – sia in cerca di altre suggestioni scaturite e acuite dalla lettura di quell’aura emanata dall’immagine stessa, che il mezzo meccanico raramente è in grado di fornire, potrà trovare nelle opere pittoriche di Paul Winstanley materia adatta alle proprie inclinazioni concettuali e attitudini sensoriali.
L’artista inglese (Manchester, 1954) usa infatti la fotografia come strumento di registrazione del reale, sia esso colto in esterni: stralci di natura ritratti con empito neoromantico nel paesaggio e con effetti dinamici nell’area urbana; o in interni: scorci spogli, “sgombri dalle cose che in genere riempiono gli interni” secondo Winstanley stesso, ritmati dal vocabolario dell’astrattismo cui la pittura moderna, sempre a detta dell’artista, non può sottrarsi. Dall’impressione fotografica egli è solito, in seconda battuta, trarre saggi di pittura finemente stratificati che, prendendo spunto dai frame catturati in pochi secondi dalla camera, rendono manifesti, in tempi posposti di mesi o anni e con massima lentezza, altri elementi percettivi.
Nella mostra a lui dedicata dalla Galleria SIX di Milano, Paul Winstanley. Works 1994-2024 (fino al 20 luglio), troviamo una decina di olii su tela, lino e tavola che riassumono alcune delle fasi del percorso compiuto in trent’anni di attività. Accompagna la mostra l’omonimo catalogo, introdotto dal testo critico di Alberto Mugnaini, pubblicato da Prearo Editore.
Quali allora le finalità dell’artista? Fra le altre, mettere in gioco la carta della sollecitazione di onlooker proiettati in dimensioni mentali e fisiche intriganti, dal momento che alcuni quadri sono realizzati in dimensioni ragguardevoli, quasi a invitare chi osserva a penetrare in essi, e appaiono privi di cornici che ne delimitino in modo vincolante le superfici. Gli spettatori sono quindi spinti a immergersi in rappresentazioni allusive a un processo di conoscenza che va al di là del mezzo pittorico, per di più spesso velate da una cortina perlacea che crea spaesamento e insieme incrina la facilità d’avvicinamento a una raffigurazione che istintivamente lo sguardo vorrebbe cogliere con immediatezza. L’assenza di figure umane in composizioni progettate con precisione quasi maniacale esalta inoltre l’indeterminatezza di situazioni che avvicinano all’esplicitazione di una metafisica del quotidiano – sorge spontaneo il parallelismo con quella tardo ottocentesca del maestro danese Vilhelm Hammershøi –, qui colte dal pennello di un minimalista.
Fondamentali per la comprensione dell’opera di Winstanley due suoi libri, summa di anni di ricerche condotte sui luoghi-schermo che sono espressione della sua poetica: nel 2018 “59 Paintings” – attraverso il quale l’artista indaga il processo concettuale che sta a monte dell’opera e l’atto creativo stesso – e, prima ancora, nel 2013, “Art School”, reportage compiuto nelle stanze vuote di scuole d’arte a fine corso, dove il vuoto lasciato da studenti e oggetti lascia emergere da pareti candide anche il soffio di condizioni esistenziali. Prova ne sono le tavole “Art School 23”, “Art School 25”, “Art School Study 1”, “Art School Study 2” e “Art School Study 3”, poste a Milano in un suggestivo rimando geometrico-formale alle scansioni architettoniche della Galleria stessa.