Fino all’11 ottobre il Museo Archeologico Regionale “Pietro Griffo” di Agrigento ospita la mostra fotografica Claudio Gobbi. La visione trasparente
L’architetto viterbese Franco Minissi (Viterbo 1919 – Bracciano 1996) sistemò, quasi sessant’anni fa, il museo Pietro Griffo di Agrigento, dando vita a uno degli esempi espositivi più curiosi di quel periodo. Difronte alla cosiddetta Valle Dei Templi, che in verità ha la parte più evidente su un’altura tanto che meriterebbe il nome di “altopiano dei Templi”, il museo ospita sino all’11 ottobre la mostra di Claudio Gobbi, a cura di Giusi Diana. Gobbi è un fotografo o, meglio, a guardare questo suo lavoro è un artista concettuale che usa la fotografia. Nasce ad Ancona nel 1971 e si forma all’Istituto Bauer di Milano sviluppando un suo linguaggio in cui il rapporto tra spazio e architettura, tema sicuramente dedotto dagli insegnamenti di Gabriele Basilico, si mischia con questioni legate all’uso delle immagini, che diventano modello e testimonianza, riferimento temporale e strumento di manipolazione dell’immaginario, come dire che i dati catturati dalla fotografia invece di essere alla realtà funzionali possono dar vita a percorsi finzionali.
Gobbi parte proprio da quest’ultima caratteristica dell’immagine, e di questo parla nel percorso della mostra. L’immagine vuole sempre da noi qualcosa, vuole essere collocata in un sistema di relazioni che muti il suo portato neutro di segno in un significato che funzioni in un discorso più ampio e complesso. L’immagine che Gobbi usa in questo caso è quella di un quadro del 1830 dipinto da Caspar David Friedrich e conservato a Dortmund in una sala del Museo d’arte e storia culturale. Il quadro s’intitola Il tempio di Giunone ad Agrigento (Junotemple in Agrigent) ed è un olio su tela di poco più di settanta centimetri di base che rappresenta un soggetto che Friedrich non ha mai visto dal vivo. Infatti, utilizzò come modello un’acquaforte del Tempio dorico pubblicata nel 1826 e, dopo aver ripulito il paesaggio da ogni orpello pittoresco e narrativo, lo dipinse come un notturno. Immerso in un algore selenico, il modello originale, nella versione di Friedrich, mostra il lato orientale ammantato di silenzio.
La rovina si trasforma in un relitto sentimentale, distanziato dalla vitalità turistica dell’Italia ottocentesca, s’appresta a simboleggiare un mondo pagano in declino sul quale vinceva la profonda fede cristiana del pittore. Il meccanismo di revisione del modello antico è quello che epura sia il suo aspetto turistico, ossia di testimonianza del grand Tour, sia il suo aspetto oggettivo, che lo essere un modello da copiare. In questo Gobbi si è allineato e quasi sovrapposto al pittore di Greifswald; ha usato, infatti, il quadro appeso al muro del museo di Dortmund quale l’unità ideale e metafisica dello spazio e del tempo ma non dimenticando che l’immagine da questo recata era stata per il pittore l’elemento di una omogeneità formale che poteva essere usata, nei suoi caratteri sostanziali, con finalità simboliche. In pratica, la suggestione del paesaggio archeologico allontanato dall’idillio arcadico si poteva rappresentare nella sua tragica, laconica, decadenza.
Gobbi riesce a eludere il segno ridondante dell’antico, sia come testimonianza dell’antico che come riferimento al suo ruolo nell’estetica romantica, per mostrare il Tempio di Giunone come scarto mnestico di una esperienza vissuta, cioè quale ricordo di un rapporto diretto con il soggetto che però ha bisogno di essere riformulato dal documento. Gobbi da una parte, infatti, scatta la foto come un semplice spettatore, mentre dall’altra la ritrova tra le foto d’archivio ossia mediata dalla funzionalità documentaria. Questo però non si rivela come un semplice procedimento di appropriazione, bensì è più che altro una risemantizzazione dell’immagine per cui, usando un ragionamento già avviato da Douglas Crimp, il fotografo cercherebbe una struttura di significato ulteriore sfruttando l’apparenza. In egual misura, ma calibrate su registro diverso, le foto del museo di Gobbi non sembrano mirare alla privazione totale del valore auratico dell’esposizione, semmai ne enfatizzano i caratteri più reconditi, quali, per esempio, il sistema di supporto invisibile di ricerca e catalogazione che c’è dietro ogni reperto e la continua attività di interpretazione.
Le sale vuote, sospese in scorci dechirichiani, mostrano perciò l’enigma delle cose, la loro partecipazione al “mistero laico” dell’esposizione. Claudio Gobbi restituisce, infatti, una versione inquieta di ciò che siamo abituati a vedere quale rassicurate testimonianza del passato, ovvero quell’immagine turistica capace di giustificare il viaggio in quanto meta prevista, cioè, vista prima di partire. Per il fotografo il viaggio ha inizio, pertanto, proprio da questa inquietante apparenza, da un incontro con l’oggetto che fa slittare le certezze nel dettaglio, sicché l’intera composizione, gestita dalle rigorose geometrie di teche e vetrine, finisce per trattenere a malapena le tensioni attivate dalla luce e dalle ombre. Il contrasto, a questo punto, crea una visione pittorica che ci fa gustare un recondito sollecito emotivo generato nel silenzio delle sale. Così, nel muto rigore della mostra i resti sembrano risvegliarsi dalla quiescenza del relitto per dialogare con il presente. Da questo dialogo emerge la duplice natura dell’antico, il suo essere paradigma e anomala traccia, referente astratto e frammento concreto, modello impareggiabile e verificabile informazione.
Le 25 foto esposte costituiscono l’opera di Claudio Gobbi intitolata La visione trasparente a cura di Giusi Diana e realizzato da Ruber Contemporanea in collaborazione con il Parco Archeologico e Paesaggistico della Valle dei Templi di Agrigento, un’opera che entrerà nella collezione del Museo Griffo. Il progetto Strategia Fotografia 2023 è una iniziativa sostenuta dalla Direzione Generale Creatività Contemporanea del Ministero della Cultura che ha permesso a Claudio Gobbi di elaborare questo progetto dopo una permanenza di mesi ad Agrigento, tempo durante il quale ha potuto alternare esperienza diretta e ricerca documentaria. Questa sua permanenza nel sito archeologico non è stata però una “campagna fotografica”, bensì una riflessione sul grand tour. Più che un antenato del turismo attuale, questo viaggio di formazione era, infatti, l’occasione per tramandare l’esperienza non in un resoconto credibile ma in una incredibile narrazione.
Il Grand Tour era attraversato da uno straordinario e, sicuramente seducente, invito alla verifica, reso più allettante dai singolari assestamenti di ciò che oggettivamente già si conosceva del passato. Il Grand Tour era, in conclusione, più un viaggio dell’anima che del corpo. Gobbi in questa mostra decostruisce la macchina mitopoietica del grand tour, cioè, separa e interpreta i suoi elementi principali: la visione dal vivo, il documento, la descrizione, la riproduzione pittorica di fantasia, la datazione e la sistemazione di una collezione. Il lavoro di Claudio Gobbi, in definitiva, sembra indagare il concetto di museo nella sua natura di testo critico, ossia sull’ attività che aggettiva l’allestimento, una operazione allusiva e simbolica di strutturazione di una specificità contestuale. Gobbi scruta dalle inquadrature quegli aspetti da cui traspare quella contiguità con il territorio agrigentino rinnovando la percezione di una relazione tra sedimento e attualità.