Tra le quasi 300 gallerie presenti ad Art Basel 2024 ci sono due nuclei che fanno la differenza nella “percezione”, tra solo shows di giovani artisti e riscoperte: Statements e Feature
Nella ciclopica edizione 2024 di Art Basel, quel che sembra funzionare maggiormente – come del resto ormai in tutte le fiere – sono stand e sezioni “curate” o, ancora, quelle gallerie che scelgono di mettere in scena solo shows o dialoghi tra due o tre artisti al massimo. Si evita così quell’effetto spaesante che, dopo aver passato in rassegna le pareti di quasi trecento booths, annulla qualsiasi soglia di attenzione e attrazione.
Così, al primo e secondo piano, siamo catturati da Statements e Feature; la prima sezione è dedicata esattamente ai solo show di giovani artisti, per un totale di 18 gallerie, mentre la seconda vuole mantenere l’idea di stand precisamente curato su figure che hanno attraversato la storia dell’arte del XX secolo.
Iniziamo da Statements, dove tra i progetti più degni di nota c’è sicuramente quello della galleria angolana (Luanda) Jahmek, che porta una installazione personale dell’artista Sandra Poulson che quest’anno abbiamo già visto sia alla Biennale di Venezia, sia a quella di Coimbra, dove il suo intervento – nel Monastero di Santa Clara a Nova, riflette sulla molteplice identità della grata, quanto dispositivo estetico, di protezione, di isolamento, di costrizione, di terrore e come la sua esistenza sia connessa alla percezione della vita quotidiana nelle zone del sud del mondo. Per Art Basel Poulson (vive e lavora tra Londra e Luanda) utilizza tessuto inamidato con resina per creare muri e porte, elementi sui quali vengono disposte riproduzioni di giacche e vestiti “abbracciati” a fucili: la familiarità dei colori e delle forme del tipico tessuto africano si mescolano con l’esperienza visiva e sociale della quotidianità delle armi, elemento estraneo e ricorrente nella vita degli abitanti dell’America Latina e dell’Africa.
Al piano terra c’è invece il nucleo delle 16 gallerie di Feature, probabilmente la migliore sezione di Art Basel in senso complessivo.
Il booth D1 è occupato dalla OH Gallery, Dakar, che ospita la presentazione di un nucleo di opere di Viyé Diba – nato nel 1954 – realizzate negli anni ’90. Diba, attratto dall’urbanizzazione del suo Paese, elabora i soggetti della città e interagisce con materiali di recupero o di uso comune per portare alla nostra attenzione le complessità e le contraddizioni della metropoli, nonché le sue aspirazioni e possibilità, interpretandone strutture ed estetiche.
La Mueller di Basilea presenta un solo show dedicato a Jean Tinguely che di certo, soprattutto qui, non ha bisogno di particolari presentazioni: curioso vedere, però, come il pubblico approcci le installazioni meccaniche dell’artista svizzero il cui museo – in questi giorni – è da riscoprire anche per il grande progetto dell’artista Mika Rottenberg “Antimatter Factory”. Per una volta, però, è doveroso spezzare una lancia a favore dei nostri musei: la mostra dell’artista di origine argentina tenutasi al MAMbo di Bologna nel 2019, a cura di Lorenzo Balbi, dove erano in scena undici progetti di cui tre creati appositamente per le sale dell’istituzione bolognese, non avrebbe avuto proprio nulla da invidiare al progetto per il museo svizzero.
Infine, di nuovo a Feature, sono in tanti ad essere stati catturati da Heitor dos Prazeres, artista carioca diviso tra musica, pittura e composizione, padre del Samba che Orson Welles volle come coreografo in un film dedicato alla cultura del più famoso ballo brasiliano. Con alle spalle una retrospettiva chiusasi lo scorso anno al Centro Cultural del Banco do Brasil di Rio de Janeiro, Heitor dos Prazeres è una delle “riscoperte” più interessanti degli ultimi tempi dall’America del Sud, rappresentato a Basilea dalla Almeida & Dale di San Paolo.