Dedicata al mondo dell’arte WUF è pensata come un dispositivo contemporaneo di connessione tra giornalisti e protagonisti dello scenario artistico e ha debuttato con uno speciale appuntamento e due intense giornate di attività martedì 11 e mercoledì 12 giugno 2024. La nuova organizzazione WUF (We Understand the Future) è dedicata a connettere voci creative e valorizzare progetti artistici emergenti attraverso un approccio guidato dall’arte e dalla tecnologia. L’edizione inaugurale prende vita con un evento esclusivo per la stampa realizzato negli spazi dell’iconico Bar Rouge, con la partnership di ArtsLife e de La Lettura de Il Corriere della Sera.
La parola ai protagonisti: PAOLO MANAZZA
David Hockney sostiene che la pittura non morirà mai. Lei cosa ne pensa?
Penso che abbia ragione.
Paolo, benvenuto a WUF. Vorremmo che tu ci presentassi la tua ricerca artistica e la tua storia come artista.
La mia ricerca artistica è abbastanza semplice. Fin da piccolo, mi ha appassionato moltissimo la pittura, quindi ho studiato per tanti anni la pittura del Seicento fiamminga e italiana. Poi, a un certo punto, vivendo nell’epoca contemporanea, ho incontrato De Kooning circa 35-40 anni fa, e da lì in poi sono caduto nel colore. La mia ricerca artistica è molto semplice. Io sono convinto che i colori siano come le persone, cioè si influenzano a vicenda. Utilizzando una tecnica come l’olio, posso cercare delle sfumature e degli accostamenti cromatici che parlano. Il quadro parla. In realtà, noi che dipingiamo ci chiamiamo artisti, ci autodefiniamo artisti, ma in realtà siamo degli interpreti di quello che la tela ci induce a fare attraverso uno studio e una conoscenza. Devo aggiungere che in quest’epoca l’ignoranza sulla pittura è molto diffusa. Spesso qualcuno mi dice: “Cosa significa questo quadro?” e io rispondo: “Niente, quello che vedi.” Io utilizzo il colore che ha una sua grammatica, una sua sintassi e persino una sua semantica, che è diversa dalle parole, dalle immagini cinematografiche o teatrali. Quindi io mi occupo di arte visiva in qualità di pittore.
Bene, e in tempi recenti ti sei avvicinato anche agli NFT?
Sì, è stata un’esperienza molto divertente e molto bella. Il primo NFT l’abbiamo realizzato insieme al Corriere della Sera per Ibrahimovic, giocatore del Milan, ex giocatore del Milan. È stato divertente perché in fase di presentazione c’era anche il presidente Cairo, che ho fatto ridere perché ho detto: “Presidente, a un certo punto sul catalogo che veniva editato mi hanno chiesto quale fosse la didascalia dell’opera, la tecnica.” Io, scherzando, ho detto: “Screen,” che non vuol dire niente, cioè olio digitale su schermo non significa nulla, e l’hanno scritto. Quindi sull’opera c’è scritto “Digital Oil on Screen.” Ho detto al presidente: “Bisogna rifare e riformulare la grammatica perché il futuro ci sta proiettando verso una direzione nella quale l’arte visiva non è più solo composta dalla pittura ma da qualsiasi immagine, anche un’installazione, una scultura, un NFT, un video.” Io non ho preconcetti sulla tecnica, ma ho tanti preconcetti sul risultato.
E in questo senso, come vedi il futuro? Pensi di voler sperimentare ancora queste nuove tecnologie o pensi di restare più fedele alla pittura classica?
No, assolutamente sì. Voglio unire queste due tecniche e soprattutto fare la ricerca sulla tecnica digitale. Io dipingo da 40 anni, ma mi occupo di NFT solo da 2-3 anni, quindi sono completamente ignorante da questo punto di vista. Però devo dire che mi sono trovato molto bene a lavorare con un regista, per esempio, adesso su Final Cut. Lui continuava a dire: “Partiamo dal tuo quadro.” Io rispondevo: “No, il quadro è una cosa, l’NFT è un’altra. Vola con le immagini.” Il segreto della buona pittura è quello di danzare. Se tu riesci a danzare sulla tela, come ci ha insegnato Pollock, allora funziona. Quindi sicuramente sì, voglio cimentarmi ancora.
E il rapporto con il mercato? Secondo te c’è una differenza nel modo in cui il mercato recepisce la pittura rispetto agli NFT, per un artista che si muove in entrambi i campi?
Questa è una domanda che mi fanno sempre ovunque vada. Ultimamente rispondo che, dopo 24 anni al Corriere della Sera occupandomi di mercato dell’arte e di beni rifugio, pur non essendo un esperto di mercato, perché è da 35 anni che guardo tutti i giorni i cataloghi delle aste di tutto il mondo, ho una certa esperienza. Io credo che il mercato sia esattamente della stessa idea del mio grande maestro, Gerhard Richter. Quando gli chiesero che opinione avesse del mercato, rispose: “Daft, stupido.” Comprare un’opera per 50 milioni di dollari è stupido. Oggi viviamo nell’epoca del capitalismo tossico, dove la tossicità è data da un elemento preciso che si chiama avidità. Noi dobbiamo cercare altri valori, non mercantili. In Italia, purtroppo, il mercato è prevalentemente speculativo, quindi va da una parte e noi andiamo dall’altra.
In questo senso, gli artisti come possono difendere la loro ricerca?
Questo dovrebbe essere il compito di uno stato intelligente, di un governo intelligente, non il nostro. Ogni volta che incontro un ministro, un sottosegretario, un funzionario, dico: “Ma scusate, l’arte contemporanea è nelle vostre agende o no?” Ci sono centinaia di artisti che muoiono di fame o che fanno altri lavori. È sempre successo, anche a New York negli anni ’50: c’era Pollock che faceva il fattorino, un altro che faceva il tassista, de Kooning che decorava le insegne. Va bene, ci sta. L’aspetto economico di sussistenza di un artista è indispensabile per la sua autonomia di pensiero. Negli Stati Uniti ci sono aziende che sovvenzionano gli artisti senza chiedere nulla in cambio perché si sono resi conto che, se muore la creatività, muore anche il mercato.
E il pubblico, secondo te, che ruolo ha? Subisce delle scelte effettuate a priori o è in grado di…
Ti rispondo con una cosa che mi ha detto una signora in un paese dove stavo facendo una mostra in un battistero del X secolo. Io insieme a Federico Guida, lui figurativo, io formale. Uscì dalla mostra questa persona che mi disse: “Ma scusi, lei è quello che fa l’informale?” Dico: “Sì.” Lei mi rispose: “Sa che mi piacciono di più le sue opere rispetto a quelle dell’altro?” Dico: “Signora, ne sono contento.” E lei: “Ma sa perché?” E mi ha dato questa risposta: “Perché tutte le mattine, appena mi sveglio, ho la televisione, il giornale, Instagram, Facebook, solo martellate di immagini e pubblicità. Invece, davanti al suo quadro, ho pensato: ‘Oh, finalmente l’immagine la creo io.'”
E tu, rispetto all’informale, senti questa libertà di staccarti dalle immagini?
Sì, per tanti anni, prima di esporre le mie opere, non ho fatto altro che copiare. Copiavo gli artisti dell’Ottocento, del Seicento. Adesso, per esempio, sto lavorando a uno studio su Pierre Bonnard, che è un pittore che amo tantissimo, ma di una difficoltà estrema. Io sono dell’idea, la stessa che aveva de Kooning: non esiste la pittura informale e la pittura figurativa. Esiste la buona pittura e la cattiva pittura.
E il colore? Tu pensi di poterlo…
Il colore, come le persone, si influenzano a vicenda. Il colore perde la matericità della pittura, ma acquisisce il movimento, cosa che la pittura statica non ha. Non esiste mai qualcosa di perfetto, c’è sempre un pro e un contro. Certo, dopo aver lavorato per cinque ore su un video, quando mi metto a dipingere, sento il profumo della trementina, vedo la matericità dell’olio e volo.
E per le tue sperimentazioni future, vorresti andare verso gli NFT e fare nuove sperimentazioni in termini di pittura?
Non ho delle direzioni precise. L’unica direzione è la qualità visiva dell’opera. L’opera deve essere rappresentativa, deve comunicare un messaggio. Può essere anche solo un messaggio di cromoterapia. Ho venduto un quadro, uno studio cromoterapico, perché i colori davano armonia, tranquillità, serenità. Ci sono quadri drammatici che danno il contrario. Noi tutti amiamo definirci artisti, ma siamo persone. Attraverso di noi si crea l’arte. Quando inizio a dipingere ho un’idea, poi la tela mi guarda e mi dice cosa fare. Il rosso è il complementare del verde, il viola del giallo.
Esistono delle regole, e la tela mi guida in questo senso.
Quindi, l’artista mantiene un rapporto con il proprio lavoro più che con le influenze esterne. Come fa l’artista a mantenere la propria libertà?
Se ha un suo linguaggio e una sua cifra, la mantiene. Io posso reinterpretare un quadro di Bonnard secondo i miei stilemi. Ci sono collezionisti che mi dicono: “Molto bello, ma io preferisco quelli stile Richter.” In realtà, è una frase senza senso, perché ci sono miniature sconvolgenti e quadri enormi del Settecento che sono inguardabili.
Bene, c’è qualche aspetto della tua ricerca artistica di cui non abbiamo parlato e che ti piacerebbe far emergere?
Che la gente impari a vedere. Juliet mi ha fatto un’intervista e mi ha detto: “David Hockney sostiene che la pittura non morirà mai. Lei cosa ne pensa?” Io ho risposto: “Penso che abbia ragione. Non morirà mai. Dalla pittura rupestre ad oggi e al futuro. Anzi, ci sono dei quadri come ‘La flagellazione’ di Piero della Francesca a Urbino, che sembra dipinto nel 3000, perché ci sono diversi campi, un’azione, ecc. La luce catturata da Caravaggio è indimenticabile per millenni.” Voglio cercare di migliorarmi e di cercare ciò che è poetico.