Fino al 21 settembre in mostra alla Galleria M77, a Milano, una serie di opere del grande fotografo Nino Migliori che aprono riflessioni sulle immagini come strumento di invenzione e presentazione del nuovo
A Milano, la Fondazione Forma nel 2013 ospitava la prima indimenticabile mostra retrospettiva dedicata al geniale Nino Migliori (Bologna, 1926), uno dei più sorprendenti sperimentatori di nuovi linguaggi, unico per la diversità dei progetti realizzati e per le ardite installazioni “off-camera” che esplorano le potenzialità espressive e trasgressive della fotografia, materia prima del suo pensiero visivo e del fare arte come fotografia: un complesso territorio di segni e sogni.
Migliori, considerato architetto della visione ed ex perito industriale, inizia a scattare fotografie a Bologna, la sua città natale, nel 1948, cogliendo nella quotidianità e nei piccoli dettagli la poesia della vita. In questi stessi anni, produce immagini neorealiste, raccolte poi nelle collezioni Gente dell’Emilia e Gente del Delta. Nel 1956 parte per il sud, attraversando Campania, Basilicata e Calabria, e dopo aver sperimentato il ritratto collettivo in esterni con taglio antropologico, capisce che l’interpretazione della realtà non basta. Dal suo sguardo di eclettico osservatore nascono i celebri Muri e i Manifesti strappati, una ricerca che prosegue fino agli anni Settanta e documenta il suo vitalistico interesse per la materia urbana senza descriverla.
Sono noti i suoi innovativi “off-camera”, che avrebbero entusiasmato Man Ray, in cui interviene sulle lastre e sulle pellicole con graffi e incisioni (cliché-verre), usa la luce di un fiammifero per impressionare i negativi in Pirogrammi, disegna sulla carta fotografica con liquidi di finissaggio e di sviluppo in Ossidazioni. Queste ricerche sono seguite dai Cellogrammi, Lucigrammi (realizzati direttamente su carta sensibile al buio usando pile elettriche) e Idrogrammi; tutte tecniche inventate dall’autore. L’artista si spinge sempre più oltre la fotografia, e l’off-camera diventa il suo habitat mentale, con ardite sperimentazioni con la polaroid, materiali vari, giocando anche con l’oro e il bronzo, e in Fotogrammi, Foro stenopeico, Cliché-verre, incluse le innovative installazioni. Per Migliori, tutto è trasformazione e nulla è ciò che appare, stimolando la riflessione.
Sono all’insegna dello sconfinamento di genere i suoi lavori prodotti negli anni Settanta, la decade concettuale e rivoluzionaria che stravolge poetica e tecnica fotografica. Fino al 21 settembre in mostra alla Galleria M77 a Milano, in collaborazione con la Fondazione Migliori, si trovano opere che aprono riflessioni sulla fotografia come strumento non di rappresentazione della realtà, bensì di invenzione e presentazione del nuovo.
Per il maestro, fotografare significa scegliere e trasformare qualsiasi soggetto in qualcosa d’altro, e in questa mostra, realizzata in omaggio agli oltre settant’anni di feconda produzione artistica, la sperimentazione unita a un’indiscutibile tensione estetica culmina in quasi ottanta lavori impressionanti. Sebbene molto diverse tra loro per soggetto e tematica, queste opere dimostrano come Lucrezio, Leonardo, Duchamp e Man Ray siano connessi.
Percorso espositivo: un viaggio dentro la serialità della sperimentazione oltre l’informale
Al piano terra, il percorso espositivo si apre con un emblematico Autoritratto (1978), collage di fotografie vintage su cartoncino, che introduce lo spettatore al grande tema della mostra: la trasformazione della materia sottoposta al trascorrere del tempo e alla variabilità materica come trama visiva. In questa sezione spiccano i lavori della serie Herbarium (1974), riflessioni sulla natura di una attualità sconcertante. Questi lavori sono affiancati da una serie di Natura Morta, ortaggi imballati in cellophane trasparente, Polarigramma (1976-77), in cui la luce viene frazionata con la polarizzazione, Lucigrafia (1970), e i Muri e Manifesti Strappati, che colgono nell’elemento naturale la mutevolezza del tempo e la caducità della vita umana, mentre nei grafismi murali il segno urbano diventa traccia visiva e memoria di vissuti.
Al primo piano, affascina In Immagin Abile analisi di un volo (1977), una serie di immagini illuminate dalla luce delle grandi finestre della galleria, capaci di cogliere costellazioni, trattorie e indagini oltre il volo degli uccelli migratori, dentro sciami che compongono architetture effimere.
Si entra nel vivo degli anni Settanta di fronte alle Sequenze Tv Dario Fo (1977), quindici stampe fotografiche montate su dibond; qui il supporto fa la differenza, come si vede nel caso della serie Sesso kitsch (1974) che sarebbe piaciuta moltissimo a Domenico Gnoli. Restano incisi nella memoria i lavori chiamati Segnificazione (1978), grandi stampe in bianco e nero montate su tavola che aprono lo sguardo al non visibile, in cui tutto è trama dell’infinito, davvero belle. Tra gli altri lavori, sono curiosi i diversi materiali d’archivio provenienti dallo studio di Migliori, custoditi in una bacheca, da non perdere per entrare nel vivo della Body Art. La Fotoscultura (mani Ontani performance Gina Pane), del 1977, è un esempio significativo e ricordiamo che nel mese di giugno dello stesso anno, a Bologna, Marina Abramovic e Ulay stavano nudi uno di fronte all’altro all’ingresso della Galleria d’Arte Moderna e il pubblico doveva passare tra loro. La mostra si conclude con cinque struggenti immagini Make Love not War (1973), scattate da Migliori nel mezzo della cosiddetta Guerra Fredda, ma purtroppo di una attualità sconvolgente sulla ineluttabile natura dell’uomo che gioca da sempre a fare la guerra.