Non vi è alcun raggiro semantico nella recente mostra di Sacha Kanah (Milano, 1981) presso Clima Gallery a Milano (Sleep Starts, 20 giugno – 07 settembre, 2024).
L’inganno del concetto, infatti, muore, non appena si considera che l’intento dell’artista milanese, o almeno quell’aspetto dell’intuizione che sprona alla ricerca, agevola l’evasività di sculture che nascono, in buona parte, in maniera autonoma. Favorire ciò che è altro, assecondare quasi con una certa distanza l’evento inconsueto; il fine non del tutto controllabile della materia che si espande nel tempo o, per meglio dire, attraversando nel tempo la materia stessa.
Acqua con diversi gradi di densità e alghe usate come addensante, come necessari strumenti per un passaggio di stato volto a conferire stabilità ed equilibrio. Una gelificazione del liquido – o come direbbe l’artista – “buchi nell’acqua” ora sospesi nello spazio, gonfiati, vuoti e vitrei (Rice crispies; Leap of faith; Blind spots, 2024). A ricordarci che, forse, l’edema del concetto rischia (ma non necessariamente) di annullare una volta e per tutte il calore, anche se minimo, di qualcosa che è, impropriamente detto, vivente.
Forse non è un errore ammettere l’ipotesi dell’artista come più vicino a un chimico che a un letterato, a meno che non si accetti la concorrenza dei saperi. La concorrenza del pensiero con il suo livello pratico. Della riflessione ora unita al peso specifico delle cose, alla loro capacità di mutazione, qualunque esse siano. Ebbene, qui l’antico litigio tra preservazione (come se il vivente debba essere conservato più che vissuto) e sperimentazione, non trova spazio alcuno, se non nella dimensione dell’opera e solo in se stessa. Poiché se la scultura chiede di porre attenzione al suo focus, d’altro canto chiede di essere fruita nel mentre della sua formazione.
L’artista procede per esperienza. Cioè sperimentando, passo dopo passo, attendendo con “lentezza” nella “memoria di un passaggio” che l’opera descrive. Così afferma, paragonandosi a “un esploratore” che osserva innanzitutto, “guidando un oggetto senza mai toccarlo, accarezzando l’aura” di opere che si rivelano talvolta lisce, altre increspate, tese e meno tese. Accompagnando, dunque, la nascita di un’opera che si crea, e riuscendo (come obiettivo) a dare un’autonomia alle cose. A quegli organismi che hanno essi stessi una propria intelligenza. Si tratta, pertanto, di passaggi di una ricerca volta a favorire e, in un certo qual modo, scoprire – come scrive l’artista nel testo in mostra – “l’intima bellezza dei fenomeni” (Intimate beauty of this phenomenon).
La possibilità e il potenziale, l’attesa di un gusto delle cose e per le cose; per la causa di se stesse, così come sono. Cercando, insomma, e volendone saggiare la portata, la dinamica della loro “capacità”, del loro essere semovente che si espande, muta, nasce e si trasforma. Che trasformandosi regala alla nostra percezione ciò che è insito nella realtà delle cose. Nel dettaglio, nella parte esigua di un universo ancora non del tutto conosciuto. Sacha Kanah lo asseconda e, a suo modo, lo canta senza celebrazioni definitive; senza la volontà di doverlo per forza controllare, ma lasciando che esso sia, che proceda seguendo la peculiarità della propria natura.
Non è, dunque, questa la ricerca? Adoperarsi per incontrare le fasi temporanee di un evento?
La stampa a getto d’inchiostro intitolata 17 seconds (2024) altro non è, ancora una volta, che una scultura. Minerali vegetali che crescono all’interno di una soluzione e vengono nutriti di vibrazioni. La temporalità è breve; sopravvivono qualche momento e poi si ossidano. “L’acqua”, dice l’artista, in questo caso “frigge” permettendo in pochi istanti ai minerali di mostrarsi nella loro complessità evolutiva. Di dare adito alla presa visione di palette cromatiche inattese. Non determinate, ma catturate in un time lapse che, oltre a definirne la complessità, introduce il passo di novità: l’istante immobile di qualcosa di fisso, ma di non deciso. Lo scenario minimo e spettacolare della materia che è e che rimane a noi invisa. Colta come in uno “scatto ipnico” (Sleep Starts in inglese, come indica il titolo dell’esposizione), una contrazione muscolare improvvisa e involontaria che demarca una zona di confine tra la veglia e il sonno.
Nel momento in cui si inizia a comprendere che l’enigma di un’eccedenza trapela addirittura nel più piccolo e in ciò che esiste di più terreno, non è necessario andare chissà dove per conoscere la sorte di una costellazione. Dovere, in altre parole, compiere la traversata di un wormhole e desiderare l’ingresso, ad oggi impossibile, in un buco nero.