“Il mio approccio alla fotografia è nato dal desiderio di riappropriarmi di un’identità perduta”. Così il fotografo Antonio Biasiucci (1961), tra i più interessanti della sua generazione, descrive la sua ricerca, che lo ha visto negli anni rivolgere l’obiettivo su tematiche di carattere identitario, trattate con la coerenza e il rigore di immagini giocate su un bianco e nero molto contrastato ed espressivo.
Quattro decenni di lavoro riassunti per la prima volta nell’antologica dedicata a Biasiucci dalle Gallerie d’Italia a Torino. “Antonio Biasiucci. Arca”, curata da Roberto Koch, riunisce 250 immagini scattate dal 1983 al 2023 e presentate in un’unica sala. La mostra rispetta la natura del pensiero di Biasiucci, diviso in diversi cicli, tutti “frammenti di una storia autobiografica”. Come sottolinea il curatore, “tra potenti polittici, sequenze di immagini, opere singole, lo sforzo è di realizzare una rappresentazione poetica ed estesa della vita degli uomini”. Così, l’avventura di un ragazzo nato e cresciuto a Dragoni, vicino a Caserta, e trasferitosi a Napoli a 19 anni, si intreccia con l’attività di Antonio Neiwiller (1948-1993), singolare figura di attore, poeta e regista di teatro, vicino a Mario Martone, Toni Servillo, Leo de Berardinis e Renato Carpentieri. La lezione di Neiwiller è fondamentale per il pensiero di Biasiucci, che esordisce con la serie Vapori (1983-1987), una sequenza di immagini legate all’antico rito contadino dell’uccisione del maiale, colto dal punto di vista dell’animale, seguito da Vacche (1987-1991) dove l’obiettivo del fotografo coglie alcuni dettagli della vita di 5 mucche in una piccola stalla.
Dagli animali al paesaggio si arriva a Magma (1987-1991), risultato della collaborazione di Biasiucci con l’Osservatorio Vesuviano, che gli permette di interpretare con immagini potenti l’attività dei vulcani attivi italiani, dove la lava assume dimensioni epiche. Il rito ritorna con Impasto (1991), dove la cottura del pane assume tratti quasi sacrali, mentre Solfatara (1995) riassume in un’unica immagine l’essenza dello sguardo del fotografo su una natura potente e indomabile. Negli anni Duemila Biasiucci si concentra sui drammi dell’umanità, con un’attitudine antropologica ma più distaccata e meno personale, con cicli dove la dimensione estetica e formale prende il sopravvento, anche grazie alla collaborazione con l’artista Mimmo Paladino, in un interessante dialogo tra disegno e immagine presente nelle serie Molti (2009) e Crani (2023).
Spiccano per precisione ed essenzialità il ciclo Codex (2015), che ritrae gli antichi faldoni dell’Archivio Storico del Banco di Napoli, Sapienza (2023), con le tracce delle cancellature degli studenti sulle lavagne nelle aule dell’Università La Sapienza, mentre l’intento umanitario in The Dream (2016) – che ritrae una serie di profughi nel campo di Souda, sull’isola di Chios – sottolinea l’importanza della fotografia nella denuncia dei drammi contemporanei. L’ampiezza della mostra (purtroppo appesantita da un allestimento un filo troppo affollato) permette di apprezzare la consapevolezza del lavoro di Biasiucci, impegnato in un racconto preciso e puntuale, senza sbavature o ambiguità: un’essenzialità non frequente e davvero encomiabile.