Coraggiosa e tempestiva, oltre che dovuta, la ricognizione sulle artiste toscane delle ultime generazioni, curata da Stefano Collicelli Cagol ed Elena Maggini al Centro Pecci di Prato, un museo che sembra voler puntare sull’arte italiana attuale con una programmazione lungimirante e non abituale sulla scena museale italiana, ancora troppo affetta da passatismo ed esterofilia.
Colorescenze. Artiste, Toscana, Futuro riunisce le opere di dodici artiste toscane—di origine o di adozione—caratterizzate da un legame molto forte al territorio, che si esplica soprattutto nella scelta dei materiali, per produrre “nuove forme e nuovi immaginari”, come spiegano i curatori. Grazie a un’accurata selezione, negli spazi dell’Ala Gamberini, il nucleo originario del museo, si apre una serie di sale personali, davvero efficaci e in un dialogo equilibrato tra loro, per rappresentare le ricerche delle singole artiste in maniera significativa. Pur nell’eterogeneità delle singole personalità, predomina il carattere installativo delle opere, alcune delle quali possiedono una potenza formale e concettuale notevole.
A cominciare da Giulia Cenci (1988) con Progresso scorsoio (2021), un’installazione composta da due grandi braccia meccaniche, realizzate con frammenti di macchine e strumenti agricoli assemblati in modo da ricordare lo scheletro di un animale preistorico, come a voler proiettare nel post-Antropocene la lezione di un grande scultore come Ettore Colla. Assai efficace anche l’opera di Chiara Bettazzi (1977): con Osservatorio (2024) ha trasformato la sua sala in un ambiente abitabile, simile agli orti operai creati dentro le fabbriche, realizzato con piante spontanee del territorio toscano e assemblato con oggetti di uso comune. L’assemblaggio caratterizza la pratica di altre due artiste presenti al Pecci: la prima è Chiara Camoni (1974), che propone un’unica scultura, Sister del Ravaneto (2024), composta da materiali trovati e centinaia di collane in terracotta, realizzate dall’artista, che accentuano il carattere arcaico e totemico dell’opera. La seconda è Isabella Costabile (1991), che popola la sua sala con 9 sculture di materiali assemblati trovati nel grossetano, creando narrazioni originali ma a volte banali.
Molto efficace è la sala di Margherita Moscardini (1981), occupata da 1XUNKNOWN (1942-2018 to Fortress Europe, with Love) (2012-2023), un’opera composta da 21 videoinstallazioni che documentano lo stato di alcuni bunker costruiti sulla costa atlantica europea durante la Seconda Guerra Mondiale. Christiane Löhr (1965) presenta 12 sculture di dimensioni diverse, tutte composizioni di elementi naturali come crini di cavallo, semi di piante, soffioni o gambi d’erba, che danno vita a un paesaggio minimalista e quasi metafisico, molto poetico nella sua essenzialità.
Interessante è la proposta di Daniela De Lorenzo (1959), incentrata sul concetto di melanconia, declinato dall’artista con il ciclo Penombra (2023-2024), alcune opere (sculture, fotografie e disegni), tra le quali spiccano i disegni che rappresentano gli occhi di specie animali differenti. Gli animali sono i protagonisti delle otto sculture in marmo di Helena Hladilová (1983), che ha scolpito una fauna fantastica e mostruosa con marmi pregiati. Infine, una notazione sul titolo della mostra, Colorescenze: si tratta di un termine ripreso da un’opera del 1965 dell’artista Lucia Marcucci (1933), presente in mostra con una serie di collage degli anni Sessanta e Settanta, giocati sul rapporto tra parola e immagine, legato alla temperie femminista di quel periodo.