Giovedì 11 luglio, prima ancora che iniziasse l’edizione 2024 del festival, Wayne McGregor viene riconfermato Direttore artistico del Settore Danza della Biennale di Venezia per il biennio 2025/2026. Lo ha stabilito il Consiglio di Amministrazione, presieduto da Pietrangelo Buttafuoco. Buttafuoco giustifica il rinnovo della carica a McGregor affermando che il coreografo inglese è riuscito a costruire per la Biennale Danza un progetto di grande respiro, mettendo in campo una sensibilità straordinaria che guarda con attenzione alle generazioni più giovani nella scena del mondo. “Vederlo all’opera in queste ultime settimane, studiarne la stupefacente immaginazione e la fatica sua di Maestro nella esclusiva scuola qual è il College di Biennale Danza, mi ha permesso di capire che il suo lavoro merita altro tempo per consolidare pratiche e visioni importanti per la nostra istituzione”.
Forse ha contribuito, e non poco, la nomina a baronetto che lo scorso 15 giugno Wayne ha ricevuto da Sua Maestà Re Carlo III “per il suo contributo pionieristico nel campo della danza”. Le capacità coreografiche di McGregor, infatti, sono giustamente riconosciute in tutto il mondo: il 21 giugno ha presentato in prima mondiale al Montepellier Danse Festival il nuovo lavoro Deepstaria con la sua compagnia, per debuttare poco dopo alla Metropolitan Opera House di New York con Woolf Work, già premiato con un Olivier Award. Nel novembre 2024 McGregor ha portato in scena la visione post-apocalittica di Margaret Atwood nel balletto in tre atti MADDADDAM, in prima europea alla Royal Opera House di Londra (una commissione dal National Ballet of Canada e dal Royal Ballet). Per di più, questa edizione di Biennale Danza ha registrato un incremento del 47% rispetto alla scorsa edizione.
Eppure, qualche perplessità su come da anni conduce il festival veneziano, alcuni critici di danza hanno cominciato a evidenziarla, per esempio guardando ai premi assegnati quest’anno: il Leone d’oro alla carriera a Cristina Caprioli e il Leone d’argento a Trajall Harrell. Danzatrice e coreografa bresciana, Caprioli, da anni residente in Svezia, è senza dubbio diventata in cinquantanni di attività un punto di riferimento per la danza contemporanea internazionale, coi suoi recenti studi su genere, femminismo, post colonialismo, nonché autrice di un linguaggio nuovo e originale. Così come Trajal Harrel, “avanguardista” del movimento, anche lui impegnato nella denuncia dei diritti uman, soprattutto quelli femminili.
“We Humans” (questo il titolo dell’edizione) è dunque una Biennale Danza dal forte orientamento politico, a braccetto con la sezione Arte che intitola la propria esposizione Foreigners Everywhere e in cui protagonisti assoluti sono un pensiero e una pratica artistica gender fluid, post-coloniale, femminista e, nuovamente, anti capitalista. Movimenti migratori, popoli condannati, perseguitati e dimenticati, corpi e sentimenti d’amore non binari che chiedono a gran voce o con flebili sussurri il diritto a essere accolti. Questioni scottanti che evidentemente inquietano tanto il mondo dell’arte visiva come quello della danza.
Il fatto è che in questa edizione della Biennale si è sempre vista meno la danza, intesa proprio come movimento coreografico. D’accordo, Cristina Caprioli in Flat Haze dice: «camminare è già una forma di coreografia», ma se per danza continuiamo ad attenerci al concetto di un susseguirsi di movimenti del corpo ritmato e modellato su un testo musicale appositamente scritto allo scopo, si rimane un po’ spiazzati nel vedere solo frammenti di movimenti qua e là, distribuiti in performance che per lo più contengono invece parola, canto e addirittura fotografia. Dobbiamo spingere oltre il nostro concetto di danza? Forse, ma sembra di capire che il mondo d’oggi abbia preferito tornare indietro che andare avanti, scervellandosi in elucubrazioni mentali che girano vorticosamente su se stesse alla ricerca di una verità primordiale da cui nascerà, forse, il mondo di domani.
Della settuagenaria Caprioli sono stati presentati tre dei suoi ultimi lavori in prima italiana: Deadlock, il 18 luglio all’Arsenale (repliche il 25, 26, 27, 28; 1, 2, 3 agosto), Falt Haze il 23 sempre all’Arsenale e Silver il 27 a Forte Marghera (repliche il 28, il 2 agosto). Un trittico itinerante intento a far scoprire «la pratica multidimensionale» dell’artista italiana e il suo modo di intendere la coreografia come «discorso critico in continuo movimento». In Deadlock, dove la danzatrice balla da sola per 50 minuti, è emersa col tempo un’inespressività totale dell’androgina Louise Dahl, nell’ambito di un ripetersi in loop degli stessi movimenti in una location sovrastata da immagini video che ritraevano un’altra danza, quella della Caproli: reale e virtuale si confrontavano senza conflitto, convivendo nello stesso spazio prefigurando futuri possibili, non senza creare però crea una certa confusione agli spettatori.
L’americano Trajal Harrel è approdato in prima italiana all’Arsenale con Sister or He Buried the Body, il 18 e 19, e Tambourines, il 2 e 3 agosto. Il primo è un assolo intimo e personale interpretato dallo stesso Harrel, mentre il secondo è una rivisitazione de La lettera scarlatta di Hawthorne, ad opera della compagnia di Harrel, che affronta temi razziali, politici e culturali legati all’America coloniale. La performance (spiegata all’inizio dallo stesso Harrel) si divide in tre parti: seduzione, educazione e celebrazione. In scena tre uomini e 2 donne, che nella prima parte si impegnano in un ballo tribale per poi sedersi in fila nella seconda mimando l’atto della preghiera. Il gruppo si alza e si risiede in continuazione, muovendo prevalentemente la parte superiore del corpo in un moto ondulatorio. Sembrano tutti inebriati, adoranti del sacerdote che conduce il rito. L’ultima parte, Celebration, è una sfilata ossessiva dei cinque che si vestono e rivestono con abiti strani e coloratissimi. Alcuni indossano anche le parrucche dei giudici, fino poi a indossare lo stesso abito dell’unica donna che non si è mai cambiata, forse la protagonista de La lettera scarlatta. Una celebrazione della donna in tutti i suoi modi di essere.
Find Your Eyes del britannico Benji Reid, in scena alle Tese dell’Arsenale il 31 luglio e il primo agosto, è un’audace esplorazione del campo visivo, in un concept cinetico che trasforma il palcoscenico in uno studio fotografico. Reid è un fotografo britannico e la sua performance si concentra sulle immagini che crea in diretta coi corpi dei danzatori, che sono tre. Anche qui però di danza ce n’è poca, se si esclude l’esibizione di pole dance di una delle ragazze. A parlare sono le immagini statiche di braccia, ginocchia, volti che fanno smorfie, che mimano dolore o gioia: indubbiamente in grado di raccontare storie, ma forse poco riconducibili all’idea di movimento.
A lasciare ancor più sconcertati è De Humani corporis fabrica di Vera Paravel e Lucien Castaing-Taylor, video installazione ispirata alla celebre opera di Andrea Vesalio del 1543 – che per prima fondò l’idea di un corpo macchina – la quale mette in discussione la rappresentazione complessiva della natura del corpo minando la tradizionale separazione tra visibile e invisibile, tra superficie e interiora. Alla Sala delle Armi, all’interno di Biennale Arte, il pubblico si trova immerso in immagini di sonde chirurgiche laparoscopiche, operazioni a cuore aperto, interventi al cervello. I video mostrano anche anziani con malattie degenerative, in cerca dei propri ricordi, cadaveri placidamente curati e lavati da infermiere all’obitorio: insomma, una serie di immagini scioccanti di un corpo che vive o muore in virtù dell’azione di altri esseri che lo coabitano. L’installazione rappresenta la fragilità del nostro corpo e la sua voglia di resistere comunque. Ma la danza che c’entra in tutto questo?
Per vedere la danza si è dovuto aspettare lo spettacolo finale della Compagnia di McGregor assieme ai ragazzi del Biennale Collage, offerta formativa di Biennale Danza che nasce con l’obiettivo di mettere a contatto giovani danzatori con maestri di fama internazionale per potenziare la loro creatività. Uno spettacolo di danza pura, in cui “tutti hanno cercato di esplorare tutto quello che può esprimere il corpo”, ha spiegato il coreografo inglese in dialogo con Elisa Guzzo Vaccarino alla fine, “il nostro cervello fa parlare il corpo. Tutta la coreografia insieme al corpo traduce il nostro lavoro. Vogliamo che la gente danzi con noi quando ci guarda” – ha continuato McGregor- “Questo lavoro è stato sviluppato insieme ai ballerini, io li ho soltanto aiutati”.
Il risultato è stato un’ora e un quarto di performance di grande dinamismo, misto a ottima tecnica contemporanea. Se sulla qualità dei danzatori della Compagnia Wayne McGregor c’è poco di nuovo da evidenziare, senza dubbio un plauso va ai 16 giovani scelti per il workshop, tra cui anche sei italiani di cui è giusto menzionare i nomi: Sofia Baglietto (Genova), Daniele Bracciale(Chieti), Simona Cristofani (Siena), Piera Gentile(Napoli), Elena Grimaldi (Aosta) e Francesco Polese(Como).
Chicca del Festival Iconoclasts – Donne che infrangono le regole, la mostra dell’Archivio storico delle arti contemporanee allestita al portego di Ca’ Giustinian fino a fine anno. La mostra a cura di Wayne McGregor in collaborazione con Elisa Guzzo Vaccarino e l’Archivio Storico, propone un excursus che copre più di un secolo, dal 1903 al 2020. Inizia sulla spiaggia del Lido di Venezia, con la pioniera Isadora Duncan e la stella dei cabaret parigini Josephine Baker, e continua con Jia Ruskaja, futura fondatrice dell’Accademia Nazionale di Danza di Roma, al Festival di Musica di Venezia nel 1934 con Una favola di Andersen. Ma si ammirano anche foto, libri, locandine e video di Janine Charrat, Agnes de Mille, nipote del celebre regista Cecil B. de Mille, con il neonato American Ballet Theatre (allora American National Ballet Theatre), Bronislava Nijinska, sorella del mitico Vaslav Nijinskij. E arrivando agli anni ‘60 e ‘70 del secolo scorso ecco anche Carolyn Brown, partner d’elezione e figura di riferimento della compagnia di Merce Cunningham, da lei co-fondata; Ann Halprin, maestra californiana che formò i grandi della danza postmoderna americana e collaborò in occasione del 16. Festival Internazionale di Musica Contemporanea con Luciano Berio ed Edoardo Sanguineti per Esposizione; Flora Cushman, co-direttrice della scuola Mudra di Maurice Bejart e Meredith Monk, artista multidsciplinare che con la sua arte ha saputo unire musica teatro e danza. Naturalmente non poteva mancare Martha Graham, madre della modern dance americana, a cui è dedicata una sezione a parte. Furono sette dei suoi lavori a essere presentati a Venezia nel 1975, in occasione degli Incontri Internazionali della Danza promossi dall’UNESCO d’intesa con la Biennale di Venezia e il Teatro La Fenice. Un’altra sezione è dedicata a Pina Bausch, che fu protagonista con il suo Tanztheater Wuppertal del 33. Festival Internazionale del Teatro. Si arriva al 1999, anno in cui nasce la Biennale Danza, sotto la direzione della danzatrice e coreografa americana Carolyn Carlson, Leone d’oro alla carriera per la Danza nel 2006.
Dopo di lei, prenderanno la guida del Festival, la punk ballerina statunitense Karole Armitage nel 2004 e Marie Chouinard, danzatrice e coreografa canadese, dal 2017 al 2020. Tutte direttrici che hanno portato tantissime interpreti e autrici dell’arte coreografica. Insomma altri tempi, forse da rimpiangere.